LA MASSIMA
“È principio da tempo affermato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il delitto di circonvenzione di incapace è un reato di pericolo e si realizza non appena il colpevole, attraverso i mezzi ed i presupposti previsti dalla norma, abbia ottenuto da parte del soggetto passivo il compimento di un atto, che importi un qualsiasi effetto giuridico e potenzialmente dannoso per il medesimo soggetto passivo o per altri. Per la consumazione del reato non si richiede, pertanto, il verificarsi del danno patrimoniale per il circonvenuto e neppure il raggiungimento del profitto da parte del colpevole, esigendosi solo che la condotta criminosa sia accompagnata dal fine di profitto.”
IL CASO
In sede di appello è stata confermata la condanna dell’imputata per il reato di circonvenzione di incapace ex art. 643 c.p. in quanto la stessa, a capo di un’associazione religiosa, è stata ritenuta responsabile di avere abusato del “delirio religioso” della vittima che versava in una condizione di vulnerabilità. L’imputata aveva indotto la persona offesa ad effettuare ingenti versamenti bancari in favore della suddetta associazione, convincendola che la richiesta delle somme provenisse dalla Madonna e servisse alla realizzazione a Medjugorje di un progetto a scopo benefico. Dalle risultanze probatorie emergeva inoltre che le somme elargite dalla vittima erano state utilizzate dall’imputata per scopi personali.
L’imputata ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, deducendo innanzitutto la mancanza di motivazione in relazione alle censure concernenti l’erronea valutazione delle prove, che sarebbero state idonee a escludere il requisito del profitto richiesto dall’art. 643 c.p., come la destinazione di somme dell’associazione, pari a quelle versate dalla vittima, alla realizzazione di edifici religiosi e case di accoglienza. La ricorrente ha inoltre lamentato la mancanza di motivazione relativamente alle censure mosse alle pretese della parte civile. Il marito e i figli della vittima avevano lamentato un danno non patrimoniale, derivante dalla distruzione dell’unione familiare, e un danno patrimoniale, ivi compresa le lesione di interessi ereditari, a causa delle elargizioni cui la vittima era stata indotta. La difesa ha evidenziato l’insussistenza di un danno al patrimonio di famiglia, avendo la persona offesa sempre amministrato in modo indipendente il proprio denaro e risultando il marito e i figli economicamente autonomi. In secondo luogo, la pretesa sull’eredità si sarebbe fondata su una mera aspettativa, non su un diritto attuale, mentre la disgregazione del nucleo familiare, non documentata, non si sarebbe potuta considerare una conseguenza immediata e diretta dei fatti di reato.
LA QUESTIONE
La Corte di Cassazione è stata chiamata a chiarire se l’effettiva realizzazione del profitto, quale conseguenza del reato di cui all’art. 643 c.p., debba considerarsi elemento imprescindibile per la configurazione del reato stesso. A tal fine, la Suprema Corte ha richiamato il principio, affermato ormai da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nell’ambito del delitto di circonvenzione di incapace occorre focalizzare l’attenzione sul pericolo di pregiudizio subito dal soggetto passivo del reato. Siffatta affermazione trova fondamento nella riconosciuta natura di reato di pericolo della circonvenzione di incapace (Cass. n. 1106/1965; Cass. n. 8103/2016).
Con riferimento al secondo motivo, la Corte di Cassazione ha affermato che, ai fini della condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, non è necessario che il danneggiato provi l’effettiva sussistenza dei danni, né il nesso di causalità tra tali danni e la condotta del reo, il cui accertamento è rimesso al giudice della liquidazione. In sede penale, la pronuncia costituisce una mera “declaratoria juris”, risultando dunque sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose. A ciò si aggiunga che, secondo la giurisprudenza, i prossimi congiunti dell’incapace, vittima di circonvenzione, sono legittimati a costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento del danno morale subito in conseguenza del reato.
LA SOLUZIONE
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha, innanzitutto, ritenuto manifestamente infondato il primo motivo, in quanto ha ribadito che, in ossequio al principio ormai da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il delitto di circonvenzione di incapace è un reato di pericolo. Siffatto reato si realizza allorquando il reo, attraverso i mezzi ed i presupposti previsti dall’art. 643 c.p., ottenga il compimento di un atto, da parte della vittima, che comporti un qualsiasi effetto giuridico e che sia potenzialmente dannoso per il soggetto passivo o per altri. Affinché il reato risulti consumato si esige solamente che la condotta criminosa sia accompagnata dal fine di profitto, non risultando necessario il verificarsi del danno patrimoniale in capo alla vittima, né il raggiungimento del profitto da parte del colpevole.
Sulla base di tale assunto, la Suprema Corte ha definito “inconferenti” le deduzioni della ricorrente, in quanto non occorre accertare la realizzazione del profitto da parte dell’imputata, bensì il pericolo di pregiudizio subito dalla persona offesa.
Nel caso di specie, la persona offesa ha conferito denaro all’associazione perché era stata circuita dall’imputata, la quale aveva approfittato delle sue condizioni. Risulta evidente che gli atti dispositivi abbiano rappresentato un pregiudizio per la vittima in quanto hanno comportato una diminuzione del suo patrimonio. A ciò si aggiunga che l’imputata ha utilizzato per scopi prettamente personali le somme elargite dalla persona offesa, a dimostrazione dell’evidente fine di profitto che ha guidato la condotta della ricorrente.
La Suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondato anche il secondo motivo in quanto il Giudice dell’appello ha fatto corretta applicazione dei principi in tema di risarcimento dei danni in favore della parte civile. La Corte territoriale ha invero evidenziato la potenziale dannosità del fatto addebitato, stante lo sconvolgimento della vita della famiglia a causa delle ripetute assenze della vittima, in balia dell’imputata.
La Corte di Cassazione ha dunque dichiarato inammissibile il ricorso, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e delle ulteriori somme in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria a causa dell’inammissibilità del ricorso per colpa.
Segnalazione a cura di Francesca Zinnarello
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