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Diritto Penale

CHIAMATA IN CORREITÀ - Cass., Sez. II, 18 settembre 2020, n. 28504

MASSIME

“La c.d. “motivazione rafforzata” è imposta esclusivamente con riferimento alle questioni relative all’accertamento e alla ricostruzione del fatto, mentre la diversa prospettazione in diritto non presuppone un’argomentazione rafforzata. In questa ipotesi, infatti, la Corte di cassazione deve verificare se la questione giuridica decisa diversamente dai giudici di merito di primo e secondo grado sia stata, da entrambi i giudicanti, correttamente esaminata e risolta e il vizio a tal fine deducibile è solo quello della violazione di legge”.


“Nonostante l’introduzione della L. n. 46 del 2006, il giudizio di cassazione rimane un giudizio di legittimità a critica vincolata e, dunque, gli atti eventualmente indicati, che devono essere specificamente allegati per soddisfare il requisito di autosufficienza del ricorso, devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa e obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell’ambito di una valutazione unitaria e devono pertanto essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso”.


“Le dichiarazioni rese innanzi alla polizia giudiziaria da una persona non sottoposta ad indagini ed aventi carattere autoindiziante, non sono utilizzabili contro chi le ha rese, ma sono pienamente utilizzabili contro i terzi, prevalendo la qualità di teste-parte offesa del reato in relazione a cui si indaga rispetto a quella di possibili coindagato in reato connesso”.


“I riscontri di cui necessita la narrazione dei collaboratori di giustizia nella c.d. chiamata in correità possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente dalla fonte che tende a confortare e a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all’imputato. Al contrario, non è richiesto che i riscontri integrino gli estremi di una prova autosufficiente perché, se così non fosse, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova sarebbe fondata su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità”.


IL CASO

A diversi soggetti sono ascritte una serie di vicende estorsive commesse nella forma aggravata dal metodo mafioso e dalla finalità agevolativa di una nota famiglia mafiosa siciliana, poste in essere in danno di numerosi commercianti e imprenditori. Avverso la sentenza della Corte d’appello, che in riforma della sentenza di primo grado ha emesso sentenza di condanna per i reati ascritti agli imputati, questi ultimi presentano ricorsi per cassazione articolati in differenti motivi.


LA QUESTIONE

La sentenza esamina diverse questioni.

In primo luogo, i giudici di legittimità affrontano la problematica della necessità della c.d. “motivazione rafforzata” a fronte del ribaltamento, da parte del giudice di secondo grado, della decisione di proscioglimento del giudice di primo grado. Per “motivazione rafforzata” deve intendersi la compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché un apparato giustificativo che dia concretamente conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina delle questioni controverse, in modo da garantire che la decisione sia connotata da una forza persuasiva superiore.

In secondo luogo, la Corte di cassazione si occupa dei limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione, riferendosi alla novella codicistica introdotta dalla L. n. 46 del 2006, che ha riconosciuto la possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con riferimento ad atti processuali specificamente indicati nei motivi di impugnazione. La questione controversa riguarda, in particolare, la possibilità che la riforma citata abbia o meno in qualche modo inciso sulla natura del giudizio di cassazione.

Ancora, i giudici di legittimità si dedicano al tema della pretesa inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalle persone offese che, nel formulare dichiarazioni di accusa nei confronti di alcuni imputati, si sono a loro volta autoaccusate di reati.

La Corte di cassazione si trova poi ad affrontare il problema della valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ossia della c.d. chiamata in correità, specificamente sotto il profilo dei riscontri necessari al fine di ritenere attendibile la narrazione dei correi.


LA SOLUZIONE

La Cassazione, nell’occuparsi della prima delle problematiche in esame, afferma che la c.d. “motivazione rafforzata” è imposta esclusivamente con riferimento alle questioni relative all’accertamento e alla ricostruzione del fatto, mentre la diversa prospettazione in diritto non presuppone un’argomentazione rafforzata. In questa ipotesi, infatti, la Corte di cassazione deve verificare se la questione giuridica decisa diversamente dai giudici di merito di primo e secondo grado sia stata, da entrambi i giudicanti, correttamente esaminata e risolta e il vizio a tal fine deducibile è solo quello della violazione di legge.

Con riferimento all’impatto della L. n. 46 del 2006 sulla natura del giudizio di cassazione, i giudici di legittimità ribadiscono con forza che detta riforma non ha in alcun modo mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane un giudizio di legittimità a critica vincolata e, dunque, gli atti eventualmente indicati, che devono essere specificamente allegati per soddisfare il requisito di autosufficienza del ricorso, devono contenere “elementi processualmente acquisiti, di natura certa e obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell’ambito di una valutazione unitaria e devono pertanto essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso”.

La Corte di cassazione esclude, in ogni caso, la possibilità di procedere, in sede di giudizio di legittimità, a nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, mediante diversa lettura, sebbene anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova.

Ancora, la Cassazione sottolinea che la modifica dell’art. 606, lett. e), c.p.p., per effetto della L. n. 46 del 2006, non consente comunque ai giudici di legittimità di sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito.

Quanto al tema della inutilizzabilità delle dichiarazione autoaccusatorie rese dalla persone offese, la Corte aderisce al consolidato orientamento secondo cui le dichiarazioni rese innanzi alla polizia giudiziaria da una persona non sottoposta ad indagini ed aventi carattere autoindiziante, non sono utilizzabili contro chi le ha rese, ma sono pienamente utilizzabili contro i terzi, prevalendo la qualità di teste-parte offesa del reato in relazione a cui si indaga rispetto a quella di possibili coindagato in reato connesso.

Infine, con riferimento al tema della valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la Cassazione si uniforma all’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui i riscontri di cui necessita la narrazione possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente dalla fonte che tende a confortare e a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all’imputato. Al contrario, non è richiesto che i riscontri integrino gli estremi di una prova autosufficiente perché, se così non fosse, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova sarebbe fondata su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità.

I riscontri esterni, quindi, possono essere costituiti anche da altre chiamate in correità, a condizione che si accerti che la convergenza non sia esito di accordi collusivi o di reciproche influenze tra dichiaranti. La convergenza, peraltro, non deve necessariamente essere perfetta, potendo lecitamente sussistere discordanze su aspetti non centrali della narrazione. Tali dissonanze, infatti, possono dirsi fisiologiche nella narrazione di eventi da parte di soggetti diversi e non ne inficiano l’affidabilità e credibilità.

Sulla base dei suddetti principi, la Corte di Cassazione ha, dunque, specificamente scrutinato i motivi di ricorso proposti nell’interesse di ciascuno dei ricorrenti, reputando tutti i ricorsi manifestamente infondati.


Segnalazione a cura di Veronica Proietti





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