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Diritto Penale

CESSIONE SELFIE - PORNOGRAFIA MINORILE - Cass. Pen. Sez. 3, 12 febbraio 2020, n. 5522

MASSIMA “Per la configurabilità del delitto di cui all’art. 600-ter, comma 4 c.p., relativo all’offerta o cessione ad altri di materiale pedopornografico ossia di materiale raffigurante la pornografia minorile secondo la nozione data dall’art. 600-ter, comma 7, c.p., è necessario e sufficiente che oggetto dell’offerta o della cessione sia il materiale pedopornografico realizzato o prodotto, e non il reato di produzione pornografica”.


IL CASO L’imputato era stato accusato dei reati di cui agli artt.646 e 600-ter, co.4, c.p. perché dopo aver scattato delle foto di gruppo usando il telefono della persona offesa, all’insaputa di quest’ultima, aveva rinvenuto nella galleria fotografica i selfie pornografici e li aveva fotografati prima di restituire il cellulare. Inoltre, dopo qualche giorno aveva inviato le foto dei selfie a un amico comune, il quale le aveva successivamente divulgate. Il Giudice dell’udienza preliminare aveva assolto l’imputato poiché aveva ritenuto che il reato dell’art.600-ter c.p. presupponesse, per ciascuna delle ipotesi contemplate dalla norma incriminatrice, che il produttore del materiale pedopornografico fosse una persona diversa dal minore raffigurato. Nel caso di specie, invece, vi era stata la duplicazione, mediante copiatura, del materiale pedopornografico autoprodotto dalla ragazza. Tale ipotesi era stata ritenuta non contemplata dalla norma incriminatrice e pertanto non giustificabile, trattandosi di un’interpretazione in malam partem. Il Giudice aveva, altresì, escluso il reato di cui all’art.646 c.p. perché in primo luogo i selfie non potevano essere considerati cose mobili oggetto di appropriazione; in secondo luogo, la ragazza, rimasta nella disponibilità degli originali, non era stata spogliata di un suo bene. Tale pronuncia era stata riformata dal Giudice di secondo grado che aveva condannato l’imputato. In particolare, la Corte di Appello aveva ritenuto determinante non il momento originario dell’autoscatto, ma quello successivo del nuovo scatto fotografico compiuto dall’imputato, terzo rispetto alla minore ritratta nel selfie. Inoltre, l’invio del materiale anche ad un solo soggetto aveva integrato la cessione, data la possibilità, insita nel mezzo telematico prescelto, di accesso ad un numero indeterminato di destinatari. I Giudici di secondo grado avevano, infine, ritenuto integrato il reato di appropriazione indebita perché l’imputato aveva illecitamente carpito le foto contenute nel cellulare della persona offesa, fotografandole a sua insaputa, non rilevando la natura di bene immateriale della res. Contro la sentenza di condanna l’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo la violazione di legge in ordine all’applicazione dell’art.600-ter, co.4, c.p.: la Corte territoriale aveva sovvertito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in quanto aveva ritenuto di poter prescindere, ai fini della configurabilità del reato, dal requisito della formazione del materiale pedopornografico da parte di un soggetto diverso rispetto al minore ritratto. L’imputato ha, altresì, dedotto la violazione di legge con riferimento alla condanna per il reato di cui all’art.646 c.p.: egli non aveva avuto il possesso del file fotografico; non era ravvisabile nella sua condotta la finalità di perseguire un illecito profitto, indispensabile per un reato a dolo specifico.

LA QUESTIONE Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione affronta la questione relativa all’interpretazione dell’art.600-ter, comma 4, in rapporto all’art.600-ter, comma 1, c.p. In particolare, i giudici di legittimità si domandano se la condotta di chi entri abusivamente nella disponibilità di foto pornografiche autoprodotte dal minore e presenti nel suo cellulare, ne effettui la riproduzione fotografica e le ceda a terzi senza autorizzazione, integri o meno l’ipotesi delittuosa di cui all’art.600-ter, comma 4, c.p. La Corte, preliminarmente, ricostruisce la portata e l’evoluzione normativa della fattispecie relativa alla pornografia minorile. Invero, la materia oggetto di esame è stata affrontata per la prima volta in Italia nel 1998 con la legge recante le “Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale, in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”. Tale disciplina era ispirata ai principi sanciti dalla Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York nel 1989 e ratificata dall’Italia con la L.176/1991. Nella formulazione originaria l’art.600-ter co.1 c.p. puniva con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da lire cinquanta milioni a lire cinquecento milioni chiunque “sfrutta minori di anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico”. La disposizione è stata modificata dalla legge 38/2006. Tale intervento normativo è stato espressione dell’esigenza di rispettare le linee guida in materia di repressione della pedopornografia proprie della Decisione del Consiglio dell’Unione Europea 2004/68/GAI. La nuova norma puniva chi “realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico utilizzando minori di anni diciotto ovvero li induce a partecipare a esibizioni pornografiche”. Pertanto, per la consumazione del delitto occorreva l’utilizzazione dei minori per la produzione di esibizioni o di materiale pornografico a prescindere da qualsiasi finalità lucrativa. Successivamente, l’art.600-ter c.p. ha subito ulteriori modifiche dovute a vari interventi legislativi. L’intervento più incisivo è stato quello operato con la L.172/2012 di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. In virtù di tale legge l’art.600-ter, co.1, c.p. disciplina oggi due diverse condotte: la realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici o la produzione degli stessi utilizzando minori; il reclutamento, l’induzione di minori a partecipare ad esibizioni o spettacoli pornografici e a trarre profitto da essi. La normativa ha, inoltre, introdotto, al comma 7 della disposizione, la definizione di pornografia minorile intendendo per tale “ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali”. La Corte affronta, poi, il problema dell’assenza di una stabile interpretazione della norma in esame da parte della giurisprudenza di legittimità. Al riguardo, richiama il ragionamento svolto nella sentenza 11675/2016 secondo cui ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art.600-ter c.p. è necessario che il produttore del materiale pornografico sia persona diversa dal minore raffigurato. Invero, nel caso dell’autoproduzione difetterebbe l’elemento costitutivo dell’utilizzo del minore da parte di un soggetto terzo. Tale orientamento era stato determinato dall’interpretazione espressa dalle Sezioni Unite con sentenza 13/2000. Nello specifico, i giudici di legittimità avevano affermato la necessità di accertare l’esistenza di un pericolo concreto di diffusione. Nella motivazione della sentenza del 2016 la Cassazione, richiamando la predetta impostazione, ha sostenuto che la soluzione proposta era valida anche per il comma 4 della medesima disposizione per i seguenti motivi: letterali in quanto i commi 2, 3 e 4 rinviavano al materiale pornografico prodotto come indicato dal comma 1; sistematici perché l’art.602-ter c.p., nel disciplinare le circostanze aggravanti relative ai delitti contro la personalità individuale, presupponeva la necessaria alterità tra l’autore del reato e la persona offesa; teleologici dato che la ratio dell’art.600-ter c.p. richiedeva che la condotta di cessione del materiale pornografico avesse quale necessario presupposto l’utilizzazione del minore da parte di un terzo. I giudici, infine, hanno affermato che una soluzione difforme da quella propugnata avrebbe implicato un’interpretazione analogica della norma incriminatrice in malam parte, come tale vietata dall’ordinamento. La Corte rileva che la correttezza di tale impostazione è stata posta in dubbio dalla dottrina. In particolare, è stato evidenziato il vuoto di tutela del sexting, neologismo inglese che individua la pratica di diffusione, attraverso dispositivi elettronici di testi e/o immagini sessualmente espliciti. Nello specifico, la dottrina distingue il sexting in primario e secondario. Il primo riguarda la condotta di chi autoproduce il materiale pornografico e ne curi la cessione a terzi, scriminata dal consenso prestato dal minore di età matura per un rapporto sessuale libero e non condizionato. Il secondo, invece, concerne la successiva utilizzazione del materiale pedopornografico ricevuto senza il consenso o in aperto dissenso del minore ritratto. Ebbene, la dottrina ha precisato che tale pratica determina, rispetto alla fattispecie disciplinata nel comma 1 dell’art.600-ter c.p., un’inversione della strumentalizzazione del minore che si sposta dal momento della produzione al momento della diffusione. Pertanto, se la ratio della norma è quella di garantire una tutela onnicomprensiva del minore si deve prendere atto che le condotte disciplinate dai commi successivi al primo sono temporalmente e materialmente distanti dal fatto di produzione e non presuppongono necessariamente l’accertamento dell’alterità. La Corte ricorda, inoltre, che l’impostazione del 2000 sulla necessità del pericolo concreto di diffusione ai fini dell’integrazione del reato è stata superata dalla Sezioni Unite con sentenza 51815/2018. In particolare, tale interpretazione è stata ritenuta superata dall’evoluzione normativa e comunque anacronistica rispetto ad un contesto sociale radicalmente mutato. In merito all’evoluzione normativa le Sezioni Unite hanno specificato che l’introduzione nel 2012 della definizione di pornografia minorile ha chiarito che oggetto della tutela penale sono l’immagine, la dignità e il corretto sviluppo sessuale del minore. Pertanto, la fattispecie in esame può essere ricostruita in termini di illecito di danno in quanto l’utilizzazione del minore nella realizzazione di materiale pornografico compromette di per sé il bene giuridico tutelato. Per quanto concerne il contesto sociale i giudici di legittimità hanno ritenuto che il requisito in esame è diventato anacronistico a causa della forte influenza delle tecnologie della comunicazione nella vita quotidiana.


LA SOLUZIONE Alla luce delle considerazioni espresse la Corte di Cassazione ritiene necessario un ripensamento dell’interpretazione dell’art.600-ter c.p. In particolare, la Corte afferma che il principio di diritto della necessaria alterità tra l’agente delle condotte e il minore non è valido per tutte le ipotesi previste dalla norma. Invero, i commi 2, 3 e 4, nel riferirsi al materiale pornografico di cui al comma 1, non richiamano l’intera condotta delittuosa prevista dallo stesso, ma si riferiscono all’oggetto materiale del reato: il materiale pedopornografico prodotto e non il reato di produzione dello stesso. Pertanto, per la configurabilità del delitto di cui all’art.600-ter, co.4, c.p. relativo all’offerta o cessione ad altri di materiale pedopornografico ossia di materiale raffigurante la pornografia minorile secondo la nozione data dal comma 7 della norma in esame, è necessario e sufficiente che oggetto dell’offerta o della cessione sia il materiale pedopornografico realizzato o prodotto, e non il reato di produzione pornografica. La Corte precisa, infine, che tale mutamento dell’interpretazione giurisprudenziale non costituisce un overruling in malam partem bensì una lettura ragionevolmente prevedibile del dato normativo. Per tali motivi i giudici di legittimità rigettano il motivo di ricorso dell’imputato relativo alla condanna per il delitto di cui all’art.600-ter, comma 4, c.p.

Segnalazione a cura di Alessandra Fantauzzi





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