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Diritto Penale

CAPPATO - ISTIGAZIONE - AIUTO AL SUICIDIO - Corte cost., 22 NOVEMBRE 2019, n. 242

Aggiornamento: 23 dic 2019

DISPOSITIVO: “La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.”

IL CASO: La vicenda trae origine dal noto caso di “D.J. Fabo”, rimasto tetraplegico a causa di un incidente. La condizione dell’uomo era irreversibile: non era autonomo nella respirazione, né nell’alimentazione, costretto ad acute sofferenze, pur conservando intatte le facoltà intellettive. Conseguentemente aveva deciso di porre fine alla sua esistenza, rivolgendosi ad un’apposita struttura svizzera. Successivamente, era entrato in contatto con Marco Cappato, imputato nel giudizio a quo, il quale, a fronte della mancata desistenza dal proposito suicida, aveva accettato di accompagnarlo in automobile in Svizzera. In seguito alla verifica delle condizioni di salute, del consenso e della capacità di assumere autonomamente il farmaco letale, era avvenuto il suicidio, allorquando l’interessato, azionando con la bocca uno stantuffo, si era iniettato tale farmaco. Cappato si era successivamente autodenunciato ed era stato sottoposto a giudizio per il reato di cui all’art. 580 c.p. La Corte d’assise di Milano riteneva che la condotta integrasse la fattispecie dell’aiuto al suicidio, quale condizione per la realizzazione dell’evento. I giudici dubitavano, tuttavia, della legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., pertanto sollevavano questione di legittimità costituzionale della norma nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicida, presupponendo una concezione anacronistica del disvalore del suicidio quale atto contrario alla sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo. Si imporrebbe una rilettura della disposizione conforme alla Costituzione e, in particolare, al principio personalistico ex art. 2 che pone l’uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale, nonché al principio di inviolabilità della libertà personale ex art. 13, da cui deriverebbe la libertà di scegliere quando e come porre termine alla propria vita. Veniva enfatizzato il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, valorizzato prima dalla giurisprudenza, nei noti casi Welby ed Englaro, poi dalla legge n. 219/2017, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, che ha sancito il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, a tutela della dignità nella fase finale della vita. La Corte d’assise censurava inoltre l’art. 580 c.p. nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al suicidio con la stessa pena della reclusione da 5 a 12 anni prevista per le più gravi condotte di istigazione, per contrasto con gli artt. 3, 13, 25, co. 2, e 27, co. 3, Cost. Con intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, veniva eccepita l’inammissibilità delle questioni e, nel merito, l’infondatezza, ritenendo erroneo il riferimento alla L. n. 219/2017, in quanto il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure non implicherebbe altresì quello di ottenere un aiuto al suicidio. Si evidenziava che la Corte EDU interpreta l’art. 2 CEDU nel senso che esso contempla il diritto alla vita e non conferisce il diritto a morire; inoltre il divieto di aiuto al suicidio sarebbe compatibile con l’art. 8 CEDU, restandone affidata la valutazione all’apprezzamento dei singoli Stati. Con riferimento alla censurata identità di trattamento sanzionatorio delle condotte di istigazione e di agevolazione al suicidio, essa non risulterebbe incostituzionale poiché il giudice, in sede di determinazione della pena, può valorizzazione la diversa gravità delle condotte nell’ambito della cornice edittale ed eventualmente riconoscere circostanze attenuanti. Si costituiva altresì l’imputato che si univa alla richiesta di dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. per le medesime censure mosse dal giudice a quo.


LA QUESTIONE: La Corte costituzionale ha affrontato la dibattuta questione del fine vita con riferimento alla punibilità della condotta di aiuto al suicidio. Con Ordinanza n. 207/2018, integralmente richiamata nella sentenza in commento, la Consulta, rigettando le eccezioni di inammissibilità, ha tuttavia escluso l’incompatibilità con la Costituzione dell’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, in quanto tale incriminazione è volta a tutelare il diritto alla vita, compatibilmente con il vigente assetto costituzionale. La Corte EDU nel 2002 (Pretty contro Regno Unito) ha chiarito che dal diritto alla vita non possa derivare il diritto a morire. Nonostante ciò, la Corte costituzionale ha individuato “una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie”, corrispondente alle ipotesi in cui l’aspirante suicida sia una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Si tratta di situazioni inimmaginabili quando la norma è stata introdotta, ma oggi rientranti nella sua sfera applicativa in virtù degli sviluppi della scienza medica e della tecnologia. La Consulta, nella sentenza in commento, ha evidenziato che, nei casi in cui l’assistenza di terzi risulta essere l’unico modo per il malato di sottrarsi al mantenimento artificiale in vita, che egli ha il diritto di rifiutare ai sensi dell’art. 32, co. 2, Cost., la decisione di morire risulterebbe compatibile con la L. n. 219/2017, mediante la richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. La decisione della Corte è incentrata infatti sull’ipotesi dell’aiuto al suicidio in favore di soggetti che già potrebbero, in via alternativa, lasciarsi morire rinunciando ai trattamenti sanitari. Il riferimento a tale procedura, con delle necessarie integrazioni, consente di dare risposta alle esigenze evidenziate nel caso di specie. La procedura in questione presuppone l’accertamento dell’irreversibilità della condizione del paziente, nonché della sua capacità di autodeterminazione e del carattere libero e informato della scelta, di cui il medico deve prospettare conseguenze e possibili alternative. L’art.1, co. 5, della legge citata richiede infatti che il paziente sia capace di agire e che la manifestazione di volontà venga acquisita nei modi più consoni alle sue condizioni. La legislazione vigente non consente, invece, al medico di mettere a disposizione trattamenti diretti a determinare la morte, sicché il paziente che vuole morire è costretto a subire un processo più lento e doloroso, anche per le persone care, opzione reputata non dignitosa dal paziente stesso. In tal caso, il divieto indiscriminato di aiuto al suicidio dà luogo alla limitazione della libertà di autodeterminazione del malato, limitazione che non risulterebbe posta a tutela di alcun altro interesse costituzionale. Ciò comporterebbe una lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza. La Corte ha escluso che il vulnus potesse essere risolto mediante una pronuncia ablativa, causando un vuoto di tutela che si presterebbe a situazioni di abuso nei confronti dei soggetti vulnerabili. Pertanto, ha ritenuto opportuno ricorrere ai propri poteri di gestione del processo costituzionale, rinviando il giudizio, mediante la suddetta Ordinanza, per consentire al Parlamento di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità. Tuttavia, tale invito è rimasto inascoltato, rendendo necessario l’intervento della Corte costituzionale a fronte dell’inerzia legislativa. Nella sentenza, la Consulta ha evidenziato che la funzione di prevenzione di cui all’art. 580 c.p., posta a tutela della vita, continuerebbe a essere assolta, all’esito della pronuncia, “stante la verificabilità ex post, da parte del giudice penale, della sussistenza delle quattro condizioni lato sensu scriminanti indicate dall’ordinanza n. 207 del 2018”. La verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve essere affidata a strutture pubbliche del SSN, cui compete altresì la verifica che le relative modalità di esecuzione garantiscano la dignità del paziente. Risulta altresì opportuno l’intervento dei comitati etici territorialmente competenti, quali organi terzi che garantiscano la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. La sentenza affronta infine il tema dell’obiezione di coscienza del sanitario, osservando che non viene introdotto alcun obbligo di procedere all’aiuto al suicidio, in quanto resta salva la possibilità di scegliere se prestarsi o meno all’attuazione della richiesta del malato.

LA SOLUZIONE: La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., per violazione degli artt. 2, 13 e 32, co. 2, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità di cui agli artt. 1 e 2 L. n. 219/2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, purché sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, previa verifica di tali condizioni e modalità di esecuzione ad opera di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale e previo parere del comitato etico territorialmente competente. La Consulta ha deciso di modulare l’efficacia temporale della propria decisione, statuendo che i requisiti procedimentali indicati quali condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio, valgano per i fatti successivi alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale. Rispetto alle vicende pregresse, la Corte ha subordinato la non punibilità dell’aiuto al suicidio al fatto che tale agevolazione sia stata prestata con modalità che risultino idonee a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti a quelle indicate in sentenza. In particolare, occorre che le condizioni del paziente siano state puntualmente verificate, che la sua volontà sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con le sue condizioni, sulla base di adeguate informazioni sia su tali condizioni che sulle possibili soluzioni alternative, come l’accesso alle cure palliative e alla sedazione profonda continua. La sussistenza di siffatti requisiti dovrà essere accertata dal giudice nel caso concreto. Le ulteriori questioni, riguardanti la violazione dell’art. 117 Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU e la misura della pena, restano assorbite. La Consulta ha infine ribadito “con vigore” la necessità del sollecito intervento del legislatore al fine di disciplinare compiutamente la materia.

Segnalazione a cura di Francesca Zinnarello

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