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Diritto Penale

BANCAROTTA FRAUDOLENTA - AMMINISTRATORE DI FATTO - Cass. V Sez. 2 novembre 2020, n. 30438

LE MASSIME

“La qualifica di amministratore di fatto spetta a colui che, pur non assumendo l'intera gamma dei poteri che la legge o lo statuto riservano all'amministratore di diritto, svolga una apprezzabile attività gestoria in maniera continuativa e non occasionale”.

“L’amministratore di fatto è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, anche di natura omissiva”.

IL CASO

La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, ha ritenuto l’imputato responsabile dei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, bancarotta impropria da reato societario e bancarotta preferenziale commessi nella sua qualità di amministratore di fatto di una società. L’amministratrice di diritto risultava essere la sorella dell’imputato, la quale, peraltro, aveva assunto su di sé tutte le responsabilità del caso nel procedimento a proprio carico.

Con il primo motivo di ricorso, il più rilevante in questa sede, l’imputato lamenta l’erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito all'attribuzione della qualifica di amministratore di fatto della società fallita, giacché la sentenza di primo grado e la Corte territoriale non avrebbero saputo indicare alcun effettivo atto di gestione attribuibile all'imputato. Conseguentemente, dovrebbe venir meno il presupposto soggettivo che consente l’ascrizione di responsabilità per i reati sopra menzionati.

Rileva anche il secondo motivo, con cui si evidenzia l’illogicità dell'attribuzione all'imputato della responsabilità per il reato di bancarotta documentale, di cui deve rispondere esclusivamente l'amministratore di diritto, unico soggetto gravato dagli obblighi relativi alla tenuta della contabilità.

Con ulteriore motivo di ricorso, l’imputato lamenta l’illegalità dell'entità della pena accessoria, applicata nella misura fissa di dieci anni nonostante la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 216 legge fall., che attualmente consente l’applicazione flessibile di tale pena grazie all’inciso testuale “fino a” dieci anni.


LA QUESTIONE

La Suprema Corte è chiamata a verificare la correttezza del ragionamento svolto dai Giudici dei gradi precedenti per ritenere la configurabilità della qualifica di amministratore di fatto. In via logicamente successiva, è chiamata a perimetrare gli obblighi incombenti su quest’ultimo, al fine di fondare la responsabilità per reati fallimentari inerenti alla tenuta delle scritture contabili.

La difesa dell’imputato, infatti, non revoca in dubbio la astratta correttezza dell’insegnamento giurisprudenziale consolidato, ai sensi del quale è amministratore di fatto colui che, pur non assumendo l'intera gamma dei poteri che la legge o lo statuto riservano all'amministratore di diritto, svolga una apprezzabile attività gestoria in maniera continuativa e non occasionale. Altre massime corroborano il principio, aggiungendo che non occorre l'esercizio di tutti i poteri tipici dell'organo di gestione, ma è comunque necessaria una significativa e continua attività gestoria svolta in modo non episodico od occasionale (Cass. V Sez. 13 giugno 2018, n. 27163). In definitiva, l’orientamento assolutamente consolidato ritiene estensibile il principio desumibile dall’art. 2639 c.c. anche ai reati fallimentari, pur in assenza di una disposizione espressa.

La difesa, tuttavia, contesta l’individuazione degli indici concreti posti a fondamento della qualifica. In particolare, si lamenta la non corretta valutazione delle risultanze delle prove testimoniali, dalle quali è emerso che la società era gestita in assoluta autonomia dall'amministratore di diritto, e cioè la sorella dell’imputato, nonché l’assenza di qualsivoglia commissione, da parte di questi, dei lavori eseguiti in favore della società fallita. Inoltre, l’amministratrice di diritto aveva assunto su di sé qualsiasi responsabilità nel procedimento a proprio carico.


LA SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, in sede di pregiudiziale esame del secondo motivo, conferma l’orientamento consolidato secondo cui l’amministratore di fatto non può invocare l’assenza di qualifica di diritto allo scopo di sottrarsi alla responsabilità penale per reati inerenti alla tenuta delle scritture contabili.

Con le successive argomentazioni, la Suprema Corte ritiene tuttavia che la Corte territoriale abbia individuato gli indici sintomatici dell’amministratore di fatto attraverso un ragionamento non sempre sorretto dal necessario rigore logico o dalla esplicitazione della sua base fattuale. L'inesperienza della sorella dell'imputato, amministratrice di diritto, e la ricorrente presenza di quest’ultimo nel ruolo formale di segretario alle assemblee nel corso delle quali sono stati approvati i bilanci falsi sono sicuramente indici rilevanti, ma non sufficienti; la mera frequentazione dei locali della società da parte dell’imputato è dato, di per sé, non univoco; il riferimento ai rapporti personalmente intrattenuti con i fornitori non è stato ben circostanziato ed è rimasto generico; infine, l'interesse dell’imputato nell'operazione che ha portato all'acquisizione di un ulteriore ramo d'azienda rileva esclusivamente ai fini della configurabilità di un concorso nel solo reato di bancarotta preferenziale, ma non anche ai fini dell’individuazione dell’amministratore di fatto nel caso di specie.

Alla luce di tali premesse, la Suprema Corte giudica non adeguatamente motivata la ricostruzione a fondamento della qualifica di amministrazione di fatto e annulla la decisione impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello per nuovo esame. Restano assorbiti i motivi relativi al trattamento sanzionatorio.



Segnalazione a cura di Antonino Ripepi




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