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Diritto Penale

ASSOCIAZIONE STAMPO MAFIOSO - PARTECIPAZIONE - Cass. pen., sez. II, 24 febbraio 2021, n. 7177.


LA MASSIMA

“Non sono essenziali, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso, né l’investitura formale né la commissione di reati-fine, funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti, rilevando piuttosto la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica ma unitaria degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all'interno dello stesso, emergenti anche da significativi facta concludentia”.

IL CASO

Con ordinanza il giudice di merito ha respinto l’istanza di riesame proposta dal ricorrente contro il provvedimento con il quale il GIP aveva disposto nei suoi confronti la custodia cautelare in carcere, ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati di partecipazione ad associazione mafiosa ex art. 416bis c.p. nonché dei fatti di detenzione e porto di armi da fuoco in luogo pubblico.

Il ricorrente propone ricorso per Cassazione lamentando la violazione di legge penale processuale con riferimento agli artt. 335, 266 e 267 c.p.p., in relazione all’intercettazione di conversazioni a mezzo del captatore informatico ("trojan") installato su un dispositivo. Secondo il ricorrente tali modalità di captazione appaiono incompatibili con la normativa codicistica a tutela del domicilio e dei terzi attenzionati, a motivo della loro applicabilità anche nei confronti di un soggetto captato non ancora iscritto nel registro degli indagati.

Si deduce inoltre un vizio di motivazione per illogicità in ordine alla ritenuta gravità indiziaria e ai presupposti fattuali solo apparentemente esistenti quali l'esistenza della locale di 'ndrangheta di Sant'Eufemia di Aspromonte. Secondo il ricorrente il Tribunale ha affermato dapprima il carattere "orizzontale" dell’organizzazione periferica per poi, contraddittoriamente, supporre l’esistenza della "locale" di Sant'Eufemia come "costola" di quella di Sinopoli. Si segnala inoltre la contraddittorietà della motivazione in relazione alla mancanza della "dote" di 'ndrangheta in capo al ricorrente e al tempo stesso all’intraneità di quest’ultimo al sodalizio, trascurando l'elemento soggettivo del reato e l’irrilevanza di una generica "messa a disposizione" in favore di singoli consociati, quand'anche in posizione apicale. Si sostiene inoltre la violazione di legge con riferimento agli artt. 1, 2, 4 e 7 della l. 895 del 1967, 110 c.p. e 273 comma 2 c.p.p., rilevando come le perquisizioni eseguite nella propria abitazione abbiano smentito che l'oggetto delle conversazioni fossero armi.

Infine, secondo il ricorrente l’ordinanza impugnata non ha motivato in ordine all’aggravante "mafiosa", ritenuta sussistente soltanto per la riferibilità delle armi alla cosca, in difetto sia di elementi su cui fondare la finalità agevolativa del sodalizio di stampo mafioso, sia di elementi di prova della consapevolezza in capo al reo della finalità di agevolare il sodalizio, richiesti dalla natura soggettiva dell’aggravante.


LA QUESTIONE

La questione rimessa alla Corte di Cassazione ha ad oggetto l’interpretazione della condotta di “partecipazione”, integrante il delitto di cui all’art. 416bis c.p. Secondo il Tribunale, infatti, quest’ultima non presuppone soltanto una perfetta consapevolezza da parte dell’agente dell’organizzazione del sodalizio e delle sue dinamiche interne, ma anche la sua sostanziale appartenenza ad essa, indipendentemente da una formale e rituale affiliazione.

Secondo quanto affermato dalla sentenza "Mannino" (Cass. SS.UU., 12.7.2005 n. 33.748), la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno "status" di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Tale partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza, possa logicamente inferirsi l’appartenenza, come i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", dell’affiliazione rituale, dell'investitura della qualifica di "uomo d'onore", della commissione di delitti-scopo, oltre ai "facta concludentia", idonei senza alcun automatismo probatorio a fornire la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo.

Sulla scia della sentenza "Mannino" si è sviluppata la teoria c.d. "causale" per cui la responsabilità del singolo partecipe al sodalizio si ritiene legata all’assunzione di un ruolo "attivo", in cui il "prender parte" deve manifestarsi all'esterno con l’adozione di condotte funzionali alla realizzazione dei fini illeciti oggetto dell’attività della compagine criminale. Pertanto né l'investitura formale né la commissione di reati-fine sono essenziali, rilevando piuttosto la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica ma unitaria degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all'interno dello stesso.

Un altro orientamento tradizionalmente presente nella giurisprudenza di legittimità, tende invece a legare la consumazione del reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso al momento in cui il soggetto entra a far parte dell'organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento da parte dello stesso di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata. Infatti, essendo l’art. 416bis c.p. un reato di pericolo presunto, per integrare l'offesa all'ordine pubblico è sufficiente la dichiarata adesione al sodalizio con la c.d. «messa a disposizione», in quanto idonea ad accrescere per ciò solo la potenziale capacità operativa ed intimidatoria dell'associazione criminale.


LA SOLUZIONE

In primo luogo la Corte di Cassazione si è pronunciata sulle articolazioni di 'ndrangheta operanti al di fuori del contesto territoriale originario o all'estero. In tal caso la Corte ritiene configurabile il reato di cui all'art. 416bis c.p. anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella "madre" del sodalizio di riferimento ed il relativo modulo organizzativo presenti i tratti distintivi del medesimo sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l'ordine pubblico.

Successivamente la Corte ha affrontato la questione della condotta penalmente rilevante ex art. 416bis c.p., ritenendo che gli elementi rappresentati dal Tribunale diano contezza di una "messa a disposizione" che, in realtà, si è tradotta nel contributo fattuale della custodia delle armi, certamente essenziale nell’economia del sodalizio. Infatti il ricorrente, pur non essendo mai stato formalmente "battezzato", per un verso era perfettamente addentro alle dinamiche del gruppo criminale e, per altro verso, era rimasto sempre a sua disposizione rendendosi responsabile delle condotte agevolative dell’associazione. A tal fine la Suprema Corte aderisce alla tesi della inessenzialità, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso, dell’investitura formale o della commissione di reati-fine funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti, rilevando piuttosto la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica ma unitaria degli elementi rivelatori di tale ruolo dinamico.


Segnalazione a cura di Eliana Esposito


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