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Diritto Penale

ASSOCIAZIONE MAFIOSA - IMPRESA - Cass. II Sez. 31 marzo 2021, n. 12323

LA MASSIMA

“L'impresa può definirsi "mafiosa" allorché vi sia totale sovrapposizione tra essa e la consorteria criminale, della quale condivide progetti e dinamiche operative, divenendone perciò strumento per la realizzazione del programma criminoso, con una conseguente commistione delle rispettive attività, o comunque quando l'intera attività d'impresa sia inquinata dall'ingresso nelle casse dell'azienda di risorse economiche provento di delitti”.


IL CASO

La Corte di Assise di appello aveva ritenuto molteplici imputati colpevoli di aver ordito una filiera mafiosa finalizzata allo smaltimento illecito dei rifiuti e, con motivazione diffusa, li aveva condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso ed avvelenamento delle acque, connesse ad altre fattispecie già riconosciute in entrambi i gradi di giudizio.

Tale riscontro era confermato dalle dichiarazioni propalate dai collaboratori di giustizia e munite di puntuali riscontri probatori, in sede dibattimentale, che confermavano l’appartenenza degli imputati ad una nota associazione criminale radicata sul territorio.

In particolare, la Corte territoriale asseriva la penale responsabilità di un imprenditore locale, il quale veniva riconosciuto non come mero “concorrente esterno” della consorteria criminale, bensì come regista dell’associazione mafiosa, così da riconoscere in capo ad egli anche l’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma secondo, c.p., oltre ad una serie di reati, tra i quali quello di avvelenamento di acque, ex art. 439 c.p.

Sicché, i condannati ricorrevano per Cassazione adducendo, tra i vasti capi impugnati, la violazione dell’art. 416-bis c.p. e dell’art. 439 c.p. relativo all’avvelenamento di acque.


LA QUESTIONE

La Corte di Cassazione ha elevato una minuziosa sentenza, dirimente in materia di rapporti tra imprenditoria e mafie, focalizzandosi su un fenomeno criminale di ampia attualità giuridica e sociale, come quello delle c.d. “ecomafie”.

Nel dettaglio, i giudici di legittimità hanno saggiato la posizione di un imprenditore e della sua azienda, tracciando il confine giuridico fra mero “concorso esterno” e “partecipazione” fidelizzata al sodalizio criminale, come sollevata dalla difesa degli imputati.

Inoltre, la Suprema Corte si è misurata con le peculiarità del reato di avvelenamento di acque, dettagliandone la natura di reato di pericolo presunto.


LA SOLUZIONE

I giudici di legittimità hanno confermato la genuinità della sentenza di appello, considerato che l’imprenditore, già condannato, controllava la discarica nella quale si perpetrava lo smaltimento illecito di rifiuti e tale attività era essenziale per l’associazione criminale, in quanto rappresentava la principale fonte di finanziamento del sodalizio.

La Corte ha vagliato la responsabilità dell’imprenditore quale associato fidelizzato e non quale mero concorrente esterno, riconoscendone inoltre il ruolo di organizzatore della consorteria mafiosa.


In particolare, per i giudici di legittimità integra il reato di mero “concorso esterno” in associazione di tipo mafioso la condotta dell'imprenditore "colluso" che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale, instauri con questo un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti nell'imporsi sul territorio in posizione dominante e nel far ottenere all'organizzazione risorse, servizi o utilità.

Mentre si configura il reato di “partecipazione” all'associazione nel caso in cui l'imprenditore metta

consapevolmente la propria impresa a disposizione del sodalizio, di cui condivide metodi e obiettivi, onde rafforzarne il potere economico sul territorio di riferimento.


Nell’analizzare i rapporti tra imprenditoria e fenomeno criminale mafioso, la Corte precisa che l'impresa può definirsi "mafiosa", allorché vi sia totale sovrapposizione tra essa e la consorteria criminale, della quale condivide progetti e dinamiche operative, divenendone perciò strumento per la realizzazione del programma criminoso, con una conseguente commistione delle rispettive attività, o comunque quando l'intera attività d'impresa sia inquinata dall'ingresso nelle casse dell'azienda di risorse economiche provento di delitti.


Invero, i rifiuti illecitamente smaltiti avevano ingenerato l’avvelenamento di acque destinate all’alimentazione, per la quale vi era già stata condanna nel giudizio di merito: sul punto, la Corte ha rammentato che l’art. 439 c.p. descrive una fattispecie di pericolo presunto, a consumazione istantanea e con effetti permanenti, caratterizzata da un necessario evento di "avvelenamento".

Minuziosamente, la Corte ha chiarito che per “avvelenamento” deve intendersi l'immissione di sostanze inquinanti di qualità ed in quantità tali da determinare il pericolo, scientificamente accertato, di effetti tossico-nocivi per la salute.

Per “acqua destinata all'alimentazione”, invece, devono intendersi tutte quelle destinate all'alimentazione umana, a prescindere dalla potabilità, sicché è configurabile la fattispecie criminosa prevista dalla norma suindicata anche se l'avvelenamento riguarda acque non pure secondo le leggi sanitarie, ma comunque idonee e potenzialmente destinabili all'uso alimentare.


Segnalazione a cura di Nicolò Pignalosa




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