LA MASSIMA
“Comporta una violazione del principio "ne bis in idem" la contestazione del reato previsto dal secondo comma dell'art. 416-bis cod. pen. (appartenenza all'associazione con funzioni di promozione, direzione o organizzazione) nei confronti di un soggetto il quale, con riferimento allo stesso periodo ed alla medesima organizzazione criminale, sia già stato giudicato quale mero partecipe (primo comma del citato art. 416-bis), poiché le accuse concernono uno stesso fatto (l'appartenenza ad un dato gruppo delinquenziale), per quanto diversamente considerato per il titolo.”
IL CASO
Le questioni sottoposte al vaglio della Suprema Corte di Cassazione traggono origine dalle doglianze proposte dai ricorrenti avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la pronuncia del G.U.P. di condanna degli imputati per il delitto di associazione mafiosa e reati fine.
Segnatamente, i ricorrenti, nella prospettazione delle diverse doglianze, lamentano l’erroneo operato valutativo del Collegio di appello. Più in particolare, rilevano le doglianze avanzate in favore di uno dei correi concernenti l’insussistenza della condotta di organizzazione e direzione mafiosa prevista dal secondo comma dell’art. 416 bis cod. pen. in quanto non risultano evidenziate, nel corpo della motivazione della sentenza impugnata, attività indicative dell’assunzione di funzioni di vertice all’interno del gruppo criminale, anche ai fini del “ne bis in idem” avendo l’imputato già subito un procedimento per i medesimi fatti in qualità di partecipe semplice.
LA QUESTIONE
Le questioni oggetto di analisi sono essenzialmente due: una di natura sostanziale e l’altra di carattere procedurale.
Per risolvere la prima questione, si impone una ricognizione dei precedenti in tema di individuazione del ruolo di capo od organizzatore dell'associazione di tipo mafioso, al fine di ricostruire i delicati approdi giurisprudenziali e dottrinali in materia.
Per rispondere alla seconda questione occorre, invece, analizzare il principio sancito dall'art. 649 cod. proc. pen., che assume nel nostro ordinamento il significato di fondamentale garanzia, anche alla luce delle diverse norme europee ed internazionali.
LA SOLUZIONE
Secondo una recente giurisprudenza di legittimità, in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, ai fini dell'attribuzione della qualifica di capo è necessaria la verifica del concreto esercizio del ruolo di vertice, che lo renda riconoscibile sia all'esterno che nell’ambito del sodalizio, realizzando un effettivo risultato di assoggettamento interno (v. Sez. VI, n. 40530 del 31/05/2017; Sez. I, n. 3137 del 19/12/2014).
Quanto alla dottrina, la stessa ha affrontato il tema della individuazione dei requisiti per il riconoscimento del ruolo di "capo" o "promotore" sottolineando che l'attività del promotore va individuata in relazione alla fase di creazione e formazione dell'associazione mafiosa, mentre, la condotta di direzione va attribuita agli individui che regolano, in tutto o in parte, l'attività collettiva con posizione di superiorità. La figura dell'organizzatore, invece, viene individuata in colui che cura il coordinamento delle attività degli altri associati, così da razionalizzare e fare convergere in una strategia unitaria i molteplici contributi, in altre parole, in colui che contribuisce a realizzare strategie complessive volte al reperimento di mezzi, materiali e all'impiego delle risorse associative anche al fine di salvaguardare l'impunità dell'associazione nel suo complesso.
Orbene, da una complessiva analisi del panorama giurisprudenziale e dottrinale, ciò che emerge con fermezza è che le condotte direttive ed organizzative vanno riferite direttamente all'associazione e comportano sempre l'affidamento di poteri direzionali.
Alla luce dei suddetti fondamentali principi, quindi, la Corte di Cassazione ha dichiarato fondato il motivo con il quale la difesa contesta che nel caso di specie possa ritenersi sussistere l'ipotesi autonoma di cui all'art. 416 bis secondo comma cod.pen. quanto alla condotta posta in essere dall’imputato nel gruppo criminale oggetto di procedimento, in quanto ha rilevato che nessuna delle condotte contestate rientra nei parametri sopra indicati, per cui tale condotta va ricondotta alla semplice partecipazione punibile secondo il parametro del primo comma dell'art. 416 bis cod.pen..
Quanto al tema dell'ostacolo del precedente giudicato, parimenti sollevato con i motivi di ricorso, la Suprema Corte ha innanzitutto rimarcato come il principio sancito dall'art. 649 cod. proc. pen., assume nell'ordinamento il significato di fondamentale garanzia, non solo ai sensi dell'art. 4 del Protocollo 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ma anche in base alla nostra Costituzione (v. Corte costituzionale, sent. n. 200 del 2016).
È stato rilevato, infatti, che seppure il divieto di duplicazione dei processi nei confronti della stessa persona in relazione al medesimo fatto-reato non è espressamente recepito nella Carta Costituzionale, tuttavia, esso è espressamente elevato al rango di diritto civile e politico nei più importanti documenti internazionali di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, richiamando, in proposito, l'art. 4, par. 1 del 7^ Protocollo alla Cedu, e ancora l'art. 14, par. 7 del Patto internazionale per i diritti civili e politici e l'art. 50 della Carta di Nizza, poi trasfuso nell'art. 11-100 della Costituzione europea.
Tali norme impongono, dunque, di valutare con il massimo rigore, alla stregua di una primaria garanzia, il profilo della preclusione derivante da giudicato.
Ne discende che la verifica in merito alla configurabilità della preclusione deve essere condotta, avendo sempre di mira la tutela di un diritto fondamentale e optando per la soluzione che risulta più idonea a scongiurarne la violazione, cioè quella che, in presenza di eventuali margini di incertezza, risulta più favorevole all'imputato.
Ciò posto, la Cassazione adita rileva che il divieto di bis in idem impone una comparazione tra il fatto in senso storico-naturalistico che ha formato oggetto di decisione irrevocabile e quello per il quale il processo è stato promosso e risulta ancora pendente.
Come ricordato dalla Corte costituzionale (nella citata sentenza n. 200 del 2016), sulla scorta di un fondamentale arresto della Corte di Cassazione (Cass. S. U., n. 34655 del 28 giugno 2005), il fatto deve essere preso in esame nelle sue componenti di condotta, evento e nesso di causalità e in relazione alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.
L'analisi suddetta deve poi concentrarsi sui principi applicabili al caso particolare di duplicazione di processi per reati permanenti nei confronti dello stesso soggetto.
Sul tema occorre certamente fare riferimento ai principi affermati dalla Cassazione, Sezioni Unite, del 1994 (Sez. U, n. 11930 del 11 novembre 1994) che, chiamata a pronunciarsi sul quesito della individuazione del momento interruttivo del reato permanente rispetto alla contestazione, ha affermato il principio secondo cui a fronte di una precedente sentenza, di condanna o di assoluzione, che prenda in esame condotte partecipative contestate nella forma c.d. "aperta" e cioè con indicazione della sola data iniziale, un nuovo giudizio per la medesima contestazione può avere ad oggetto solo fatti commessi dalla data della sentenza di primo grado in poi, altrimenti determinandosi la violazione del ne bis in idem.
Nel caso in esame, quindi, il tema del giudicato va combinato con gli effetti della decisione di annullamento per il più grave delitto di cui all'art. 416 bis secondo comma cod. pen..
Trattandosi di partecipazione alla medesima compagine associativa giudicata in distinti giudizi il divieto di ne bis in idem sarà rispettato soltanto ove non sussista sovrapposizione dei periodi temporali oggetto dei due procedimenti, secondo il principio di diritto per cui: “Comporta una violazione del principio "ne bis in idem" la contestazione del reato previsto dal secondo comma dell'art. 416-bis cod. pen. (appartenenza all'associazione con funzioni di promozione, direzione o organizzazione) nei confronti di un soggetto il quale, con riferimento allo stesso periodo ed alla medesima organizzazione criminale, sia già stato giudicato quale mero partecipe (primo comma del citato art. 416-bis), poiché le accuse concernono uno stesso fatto (l'appartenenza ad un dato gruppo delinquenziale), per quanto diversamente considerato per il titolo” (in questo senso anche Cass. Sez. 6, n. 6262 del 17 gennaio 2003).
Conseguentemente, esclusa la condotta di direzione dell'organizzazione mafiosa, l'impugnata sentenza, con riferimento alla posizione del ricorrente in esame, viene annullata con integrale rinvio per nuovo giudizio.
Segnalazione a cura di Avv. Stefania Barone
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