LA MASSIMA
“Ferma la necessità che vi sia evidenza dell’esistenza di una struttura organizzativa, anche di carattere rudimentale, volta alla realizzazione di un programma criminoso implicante la commissione di azioni violente di natura terroristica, l’accertamento della partecipazione del singolo a tale struttura organizzata non può non implicare la verifica della “bilateralità” della relazione, cioè della volontà del soggetto di aderire e di dare il proprio concreto supporto alla realizzazione degli obiettivi del sodalizio, da un lato, e della consapevolezza da parte del gruppo criminale – anche mediata, riflessa e indiretta- di tale adesione e della disponibilità del singolo a realizzare gli scopi terroristici, dall’altro.”
IL CASO
A seguito dalla conferma, ad opera della Corte d’Assise d’Appello, della condanna dell’imputato al delitto di cui all’art. 270 bis comma secondo c.p., la difesa ha presentato ricorso in Cassazione lamentando l’insussistenza della condotta partecipativa e l’errata qualificazione del fatto operata dal giudice, ritenendo che la condotta dell’imputato dovesse essere sussunta nella diversa fattispecie di cui all’art. 414 comma 2 c.p.
LA QUESTIONE
Il fenomeno della partecipazione ad un’associazione terroristica di stampo jiadista presenta delle connotazioni del tutto peculiari e distintive rispetto ad altre forme di partecipazione a gruppi organizzati, trattandosi di una compagine dai confini soggettivi non rigidamente definiti, ed essendo aperta alle adesioni spontanee dei singoli senza necessità di celebrazioni o riti solenni nell’ambito della quale ogni soggetto può compiere attentati al fine di attuare il programma terroristico. Queste peculiarità rendono difficile tracciare il confine tra le attività di partecipazione e le attività di chi compie atti che – pur coincidendo con quelli attuativi del programma di un’associazione – non è “partecipe”. Questa difficoltà si è tradotta nell’emersione di due distinti orientamenti. Secondo un primo orientamento ai fini della configurabilità del delitto di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo è sufficiente, in presenza di una struttura organizzata, che la condotta di adesione ideologica del soggetto si sostanzi in seri propositi criminali volti a realizzare una delle finalità associative, senza che sia necessario, data la natura di reato di pericolo presunto, l’inizio della materiale esecuzione del programma criminale. Secondo altro orientamento, invece sarebbe necessario individuare un contatto tra cellula e associazione madre che deve “sapere” anche indirettamente di poter contare su un determinato soggetto.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione nella pronuncia in commento aderisce al secondo dei sopracitati orientamenti.
Nel ricordare il carattere “liquido” dell’organizzazione di un’associazione terroristica di matrice islamico fondamentalista la Corte si premura di affermare come il carattere aperto a libere adesioni della stessa non possa appiattire la condotta partecipativa al riscontro di una mera adesione ideale ad un sistema valoriale. Afferma, dunque, la necessità anche al fine di evitare la criminalizzazione di comportamenti di mera adesione psicologica- fra l’altro sottraendo terreno all’area di copertura delle ipotesi di apologia e istigazione aggravate ex 414 comma 2 – di accertare un’effettiva “messa a disposizione” dell’affiliato funzionale alla realizzazione degli obiettivi terroristici del sodalizio, dunque della possibilità che l’organizzazione possa essere eventualmente in grado di raggiungere, di contattare, e di coinvolgere il singolo componente.
Nella motivazione si intravede la necessità – soddisfatta dall’orientamento in questione- di dare continuità alle categorie generali in tema di reato associativo là dove postulano la prova di un inserimento “effettivo” e non meramente potenziale nonché l’esigenza indiscussa di fornire un’interpretazione della disposizione rispettosa dei principi di materialità e offensività.
La Corte analizzando il fronte probatorio afferma che l’adesione del singolo al programma criminoso non deve necessariamente fondarsi sulla prova diretta della intraneità, potendo a detto fine essere valorizzati anche i propositi eversivi esternati dall’aderente a condizione che detti propositi non siano astratti, cioè espressione di un’aspirazione personale, quanto, piuttosto, sorretti da elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo, reale, tra il singolo e la “struttura” che consenta di tradurre in pratica gli intenti terroristici. Oltre a ciò, è necessario acquisire la prova, anch’essa eventualmente indiretta, che la condotta del singolo si innesti nella struttura, cioè che esista un legame anche flessibile, ma concreto e consapevole tra l’organizzazione e il singolo, dovendo l’associazione sapere, anche indirettamente, di “poter contare” su un determinato soggetto.
La Corte, inoltre, mette in guardia l’interprete osservando come il mancato accertamento di tali elementi rischi di fare considerare partecipi all’associazione anche coloro che con lo Stato islamico non hanno alcun contatto e i cui rapporti con questa sono limitati alla mera condivisione di informazioni mediante i più diffusi social network.
Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche la Corte giunge a ritenere corretta la qualificazione operata dai Giudici della cognizione, laddove hanno ritenuto l’imputato intraneo all’associazione non sulla base della mera condivisione con altri di filmati e documenti inneggianti alla jihad, di relazioni solo virtuali sulla rete e della manifestazione di un’adesione solo ideale, ma sulla scorta di specifiche condotte atte a proiettare all’esterno l’effettiva messa a disposizione dell’organizzazione al fine di realizzarne gli scopi criminali.
Segnalazione a cura di Rosati Sara
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