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Diritto Penale

APPROPRIAZIONE INDEBITA - ACCONTO CONTRATTO PRELIMINARE - Cass., Sez. II, 23 giugno 2020, n. 19095

MASSIMA:

“Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto preliminare per l'acquisto di un immobile, non restituisca al promissario acquirente la somma ricevuta a titolo di acconto sul prezzo pattuito, e ciò in quanto, a seguito della dazione, la somma di denaro è entrata definitivamente a far parte del patrimonio dell'"accipiens" senza alcun vincolo di impiego, con la conseguenza che nel caso di in cui il contratto venga meno tra le parti matura solo un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra esclusivamente un inadempimento di natura civilistica.”


IL CASO:

Avverso la sentenza di appello che ha confermato l’assoluzione dell’imputato dal reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. “perché il fatto non sussiste”, ha proposto appello la parte civile.

Il ricorrente, all’epoca dei fatti socio di una società cooperativa, in virtù di un contratto preliminare aveva versato delle somme, a titolo di acconto, per l’assegnazione di un immobile ed esborsato ulteriori somme di denaro per effettuarvi delle migliorie. Tuttavia, non aveva provveduto a corrispondere le restanti somme dovute. L’imputato, nella qualità di amministratore e legale rappresentante della cooperativa, aveva rifiutato di restituire il denaro ed era stato accusato di essersi appropriato delle suddette somme in seguito all’esclusione del ricorrente dalla società, a fronte della morosità di quest’ultimo.

Il ricorrente ha contestato l’assoluzione dell’imputato, basata sull’immotivata equiparazione delle somme versate a titolo di acconto a quelle corrisposte a titolo di caparra. Siffatta equiparazione ha indotto la Corte di appello a respingere la tesi della parte civile secondo cui le somme consegnate in conto costruzione sarebbero vincolate alla destinazione. La Corte territoriale ha ritenuto, invece, che la condotta dell’imputato non integri il reato di cui all’art. 646 c.p., poiché difetta il presupposto essenziale dell’impossessamento della cosa altrui, considerato che la cosa fungibile data a titolo di acconto o di caparra diventa di proprietà dell’accipiens, il quale, in caso di inadempimento, è tenuto alla restituzione di cosa dello stesso genere.


LA QUESTIONE:

Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha in primo luogo chiarito, al fine di valutare la doglianza del ricorrente relativa alla congruità della motivazione del provvedimento impugnato, che le sentenze di primo e secondo grado hanno escluso la proprietà, in capo allo stesso ricorrente, delle somme corrisposte alla società. La mancanza di qualsivoglia vincolo di destinazione ha consentito alla Corte di appello di affermarne l’acquisizione al patrimonio della cooperativa, richiamando la giurisprudenza di legittimità che ritiene che le somme corrisposte a titolo di acconto o di caparra entrino a far parte del patrimonio dell’accipiens.

Si tratta di un principio che, secondo la Corte di Cassazione, può essere condivisibilmente applicato sia all’acconto che alla caparra, poiché sono distinguibili sotto il profilo civilistico, ma non sotto quello penalistico proprio perché entrambi risultano privi di impiego vincolato.

La Suprema Corte ha richiamato una pronunzia in cui le Sezioni Unite hanno affermato che la nozione di “altruità” nella fattispecie di appropriazione indebita non è intesa nell’accezione civilistica di proprietà distinguibile dalla disponibilità. Nel diritto civile, la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, sicché il denaro si confonde con il patrimonio di chi lo possiede. Nell’ipotesi in cui un soggetto abbia ricevuto del denaro per impiegarlo in un determinato modo, questi ha l'obbligo di restituire l’equivalente, qualora ne ricorrano le condizioni, ma non ha il divieto di usarne nel frattempo. In ambito penale, invece, il riferimento al possesso di denaro altrui di cui all’art. 646 c.p. ha un significato diverso, in quanto non consente “di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un’obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure vincolata, la dazione a un terzo di una somma di denaro” (sent. n. 37954/2011).

Le Sezioni Unite hanno inoltre evidenziato che l'inadempimento di un’obbligazione è già sanzionato penalmente a titolo di insolvenza fraudolenta ex art. 641 c.p. solo laddove l’obbligazione sia stata assunta con l’intenzione di non adempierla e dissimulando lo stato di insolvenza.


LA SOLUZIONE:

La Suprema Corte, in linea di continuità con la maggioritaria giurisprudenza di legittimità, ha affermato che la condotta del promittente venditore non integra il delitto di appropriazione indebita nell’ipotesi in cui questi, a seguito della risoluzione del contratto preliminare, non restituisca al promissario acquirente la somma ricevuta a titolo di acconto per l'acquisto di un immobile. L’affermazione è basata sul fatto che tale somma di denaro è entrata a far parte in modo definitivo del patrimonio dell'"accipiens", senza alcun vincolo di impiego. In capo a quest’ultimo sorge solo un obbligo di restituzione qualora venga meno l’efficacia del contratto. Allorquando tale obbligo resti inadempiuto, la condotta non integra quindi il reato di appropriazione indebita, ma rileva solo ai fini del riconoscimento di una responsabilità civile da inadempimento (Cass. n. 15815/2017; Cass. n. 24669/2007; Cass. n. 5732/1982).

La Corte di Cassazione ha dunque rigettato il ricorso, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Segnalazione a cura di Francesca Zinnarello






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