MASSIMA
In tema di operazioni sotto copertura, è inutilizzabile la prova acquisita dall’agente infiltrato che abbia determinato l’indagato alla commissione di un reato e non quella acquisita con l’azione di mero disvelamento di una risoluzione delittuosa già esistente, rispetto alla quale l’attività di infiltrato si presenti solo come occasione di estrinsecazione del reato (Fattispecie in cui gli agenti sotto copertura si sono limitati a fingersi interessati all’acquisto di droga, concordando luogo, tempo e modalità della consegna di sostanza stupefacente, già nella disponibilità dell’imputato).
IL CASO
Il Gip del Tribunale di Lecce, all’esito di giudizio abbreviato, condannava otto imputati, in particolare P.D. per il delitto di detenzione ai fini di cessione di sostanza stupefacente del tipo marijuana, con l’aggravante dell’ingente quantità.
Tutti gli imputati ricorrevano in Cassazione e la difesa di P.D., tra i motivi di impugnazione adduceva la violazione di legge e la contraddittorietà della motivazione assunta dal Gip nella sentenza di condanna, eccependo l’inutilizzabilità probatoria dell’attività svolta dagli ufficiali di polizia che avevano agito da infiltrati, in quanto gli stessi non si sarebbero limitati ad avere un atteggiamento passivo, ma avrebbero provocato la commissione del reato, determinando così P.D. a realizzarlo.
LA QUESTIONE
Nel caso di specie la Corte di legittimità fa chiarezza sui limiti posti all’attività di indagine degli agenti sotto copertura e sull’utilizzabilità, ai fini probatori, degli esiti delle investigazioni svolte dagli infiltrati.
La normativa alla quale occorre fare riferimento è ora confluita in parte nell’art. 9 della L. n.146/2016, norma che prevede una causa di giustificazione per gli agenti che operino sotto copertura, salva in ogni caso la scriminante di cui all’art. 51 c.p.
Nello specifico non sono punibili gli agenti che, nei limiti delle proprie competenze e nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine a tutta una serie di delitti, tassativamente elencati, svolgano tutta una serie di azioni, o omissioni costituenti reato. Per esemplificare, dare rifugio o comunque prestare assistenza a degli associati, acquistare, ricevere, sostituire od occultare denaro o altra utilità, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto, prezzo o mezzo per commettere il reato, come l’accettarne l'offerta o la promessa, ostacolarne l'individuazione della loro provenienza o consentirne l'impiego, o corrispondere denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, o in ogni caso compiere attività prodromiche e strumentali alla commissione di illeciti.
Tuttavia, affinché la causa di giustificazione possa operare, è necessario che le attività' sopra elencate siano condotte in attuazione di operazioni autorizzate e documentate, secondo le modalità previste dalla legge.
Dunque ciò che è possibile ricavare dalla lettura della normativa di riferimento è che l’attività degli agenti sotto copertura segue regole specifiche e l’attività di indagine svolta dagli stessi, finalizzata alla raccolta di elementi probatori a carico dell’indagato, incontra dei limiti precisi, oltre i quali la prova raccolta diviene inutilizzabile, in quanto assunta in violazione delle norme di legge, ai sensi dell’art. 191 c.p.p.
LA SOLUZIONE
La Corte ritiene il su esposto motivo infondato e nell’argomentare prende le mosse da precedenti pronunce di legittimità.
In primo luogo viene sottolineato che, sebbene la sanzione processuale che deriva dalla violazione delle norme poste a presidio delle indagini investigative sotto copertura, sia l’inutilizzabilità delle prove raccolte, nel caso di specie da parte degli agenti infiltrati non vi era stato alcun superamento dei limiti posti dall’ordinamento.
La giurisprudenza sul punto ha da tempo chiarito che il materiale probatorio acquisito diviene non utilizzabile nell’ipotesi in cui la sola azione dell’agente abbia incitato o comunque indotto l’indagato a commettere il fatto di reato. Pertanto, affinché il provocato non sia punibile, occorre accertare che la propria azione delittuosa sia derivata in modo assoluto ed esclusivo dall’istigazione dell’agente sotto copertura.
Diverso è il caso in cui l’azione dell’infiltrato si limiti a disvelare l’intenzione criminosa dell’indagato, già esistente, e che dia allo stesso solo l’occasione affinché questa possa concretizzarsi. Dunque determinare in modo essenziale il soggetto indagato a commettere reato, in assenza di una volontà preesistente dello stesso in tal senso, è ben diverso dal fornirgli l’opportunità di concretizzare una volontà criminosa già esistente: in quest’ultimo caso il soggetto agente ha già in se l’intentio di delinquere. La Corte di Cassazione quindi precisa che in quest’ultimo caso l’attività dell’agente sotto copertura, consistita nel provocare l’indagato, è un fattore estrinseco che dà un mero spunto all’azione delittuosa e che non esclude in alcun modo la volontà del provocato rispetto alla realizzazione del reato.
Come nel caso di specie, in precedenti pronunce la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistente la punibilità del soggetto agente nell’ipotesi di cessione all’infiltrato di sostanza stupefacente, già detenuta illecitamente, anche nel caso in cui la condotta delittuosa sia la conseguenza di un piano ideato dagli agenti infiltrati, per eseguire il quale l’imputato si è volontariamente prestato ad eseguire il compito affidatogli, quale la ricerca di acquirenti e la consegna di un rilevante carico di stupefacenti.
Nel caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, l’imputato P.D. disponeva già della sostanza stupefacente e gli agenti infiltrati si erano limitati a fingersi interessati all’acquisto, concordando con il complice dell’imputato luogo, tempo e modalità della consegna.
Dunque la volontà criminosa di P.D. non era stata determinata in modo assoluto ed essenziale dall’azione degli agenti sotto copertura, ma l’indagato si era determinato alla commissione del fatto di reato portando a compimento la propria volontà criminosa, già preesistente.
Posto quanto sopra la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da P.D. e lo condanna al pagamento delle spese processuali.
Segnalazione a cura di Erika Violante
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