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Diritto Penale

586 cp - COLPA IN CONCRETO - Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2009, n. 22676

A cura di Erik Giachello


LA MASSIMA

“Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 cod. pen. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale”.


IL CASO

La questione origina dal decesso della persona offesa, causato dall’assunzione di dosi di eroina, acquistata e condivisa da un amico, che l’aveva ricevuta in precedenza da uno spacciatore. Quest’ultimo veniva, quindi, rinviato a giudizio per i reati di detenzione e cessione di stupefacenti e di morte quale conseguenza di altro delitto, di cui agli artt. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e 83 e 586 c.p.

Tuttavia, in primo grado, il Tribunale riconosceva la colpevolezza dell’imputato solo per il reato di detenzione ex art. 73, commi 1 e 5, d.P.R. 309 del 1990, assolvendolo per gli altri capi d’imputazione. Soluzione che veniva riformata in appello, dove veniva affermata la sua colpevolezza non solo per il reato di detenzione, ma anche per la morte della vittima e per la cessione della sostanza.

Avverso tale sentenza, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, individuando quattro motivi. In primo luogo, deduceva il difetto di motivazione sulle risultanze processuali, che si erano basate sulle dichiarazioni dell’acquirente della sostanza, ritenute prive di indizi gravi, precisi e concordanti. In secondo luogo, lamentava l’erronea applicazione degli artt. 83, 586 e 589 c.p., che si sarebbe basata sul solo nesso di causalità, senza un’adeguata valutazione dell’elemento soggettivo. In terzo luogo, ravvisava la violazione dell’art. 431 c.p.p., ritenendo che le sommarie informazioni raccolte dalla Polizia Giudiziaria non potessero essere utilizzate, trattandosi di atti ripetibili. Infine, deduceva l’illogicità della motivazione, nella parte in cui riteneva non dimostrata la qualità di abituale assuntore di eroina del reo, tale da giustificare la detenzione per uso personale.

In seguito, la quarta sezione della Corte di Cassazione rimetteva la questione alle Sezioni Unite, affinché chiarissero quali fossero i presupposti necessari per il configurarsi della responsabilità ex art. 586 c.p.


LA QUESTIONE

Sulla questione oggetto dell’ordinanza di rimessione si fronteggiavano diversi orientamenti. Da un lato, una parte consistente della giurisprudenza ravvisava un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ritenendo sufficiente la dimostrazione del nesso causale tra la condotta e la morte, non interrotto da concause eccezionali. Dall’altro, una seconda tesi riteneva che fosse necessario un addebito per colpa specifica, che poteva riscontrarsi nella violazione di legge che porta alla commissione del delitto presupposto. Inoltre, in tempi più recenti si era affermata una nuova interpretazione, che focalizzava l’attenzione sul concetto di prevedibilità in concreto dell’evento morte o lesione. Soluzione che si aggiungeva, peraltro, ad ulteriori orientamenti minoritari, che valorizzavano l’elemento colposo, seppur declinato sotto concezioni diverse.

In ragione di questo contrasto, la sezione formulava il seguente quesito: “Se ai fini dell'accertamento della responsabilità penale dello spacciatore per la morte dell'acquirente, in conseguenza della cessione o di cessioni intermedie della sostanza stupefacente che risulti letale per il soggetto assuntore, sia sufficiente la prova del nesso di causalità materiale fra la precedente condotta e l'evento diverso ed ulteriore, purché non interrotto da cause sopravvenute di carattere eccezionale, ovvero debba essere dimostrata anche la sussistenza di un profilo colposo per non aver preveduto l'evento”.


LA SOLUZIONE

Innanzitutto, le Sezioni Unite risolvono le controversie insorte sul primo, terzo e quarto motivo di ricorso. Tutte queste doglianze vengono rigettate, con conseguente conferma dei capi della sentenza relativi alla detenzione e alla cessione di sostanze stupefacenti.

Per converso, la Corte dedica ampio spazio all’esame del secondo motivo di ricorso, in quanto oggetto dell’ordinanza di rimessione. In particolare, riconosce che la sentenza del giudice d’appello ha fondato la condanna sul riscontro della causalità materiale, senza estendere le valutazioni all’elemento soggettivo. Di conseguenza, ha trovato applicazione il primo orientamento patrocinato dalla giurisprudenza, con un’imputazione oggettiva dell’evento morte.

Dopodiché, i giudici passano all’esame dell’art. 586 c.p., ricostruendone la natura giuridica e l’ambito applicativo. Infatti, tale reato rappresenta una specificazione dell’art. 83 c.p., trattandosi di una forma di aberratio delicti plurilesiva. Come nell’istituto di parte generale, il delitto in questione incrimina il soggetto quando da un fatto preveduto come delitto doloso derivi la morte o la lesione di una persona, quale conseguenza non voluta dal colpevole.

La fattispecie in questione presenta, quindi, forti analogie con l’omicidio preterintenzionale di cui all’art. 584 c.p. Tuttavia, se ne differenzia poiché il delitto preterintenzionale deriva dal reato di lesioni o percosse, per cui si tratta di condotte dirette a ledere lo stesso bene giuridico, costituito dall’incolumità fisica. Per converso, l’ipotesi di cui all’art. 586 c.p. richiede che la morte o le lesioni siano la conseguenza di un delitto diverso da quelli di lesioni o di percosse (Cass. pen., sez. V, 21 maggio 2020, n. 15630)

Sotto un altro profilo, la norma in questione non specifica il titolo di responsabilità a cui l’imputato è chiamato a rispondere, determinando un profondo contrasto in dottrina e in giurisprudenza. Tant’è che la sentenza in commento individua cinque orientamenti, che analizza nel dettaglio.

La soluzione più risalente e per lungo tempo prevalente in giurisprudenza ravvisa una forma di responsabilità oggettiva. L’addebito sarebbe giustificato dalla semplice dimostrazione del nesso causale tra la condotta e l’evento, in omaggio ad un’interpretazione più severa delle norme penali. Infatti, i sostenitori di tale orientamento ritengono che la commissione di un delitto doloso sia di per sé sufficiente a dimostrare la colpevolezza per il delitto conseguente e non voluto. Pertanto, non occorrerà la prova della colpa, in applicazione del brocardo qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu.

In assenza di un’indagine sulla colpevolezza, la prova liberatoria ricade sulla sopravvenienza di cause eccezionali, che assorbano in sé il disvalore della condotta. Di conseguenza, lo spacciatore sarebbe responsabile sia nel caso di cessione immediata alla vittima, sia qualora si tratti di cessione mediata. In tale secondo caso, infatti, l’evento morte è comunque prevedibile, poiché le successive cessioni non interrompono l’originario nesso causale.

Tuttavia, la soluzione propugnata da questa parte della giurisprudenza e della dottrina non risulta condivisibile, poiché introduce una presunzione di colpevolezza che è estranea al nostro ordinamento penale. I più recenti sviluppi hanno condotto, infatti, al superamento di numerose forme di responsabilità oggettiva, valorizzando il principio di personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa della pena. Inoltre, l’individuazione di una responsabilità oggettiva contrasterebbe anche con il principio del favor rei e con il principio di colpevolezza.

Pertanto, il superamento di questa ricostruzione comporta il riconoscimento di una diversa forma di responsabilità, che potrebbe tradursi in un addebito colposo dell’evento. Proprio in questo secondo solco si colloca un altro orientamento giurisprudenziale, anch’esso dotato di un certo seguito. In questo caso, non si limita l’indagine al nesso casuale, ma si ricerca una componente soggettiva, che animi la condotta del reo.

Il secondo orientamento esaminato nella sentenza delle Sezioni Unite ravvisa, dunque, una responsabilità per colpa specifica, fondata sull’inosservanza della norma penale incriminatrice del reato base doloso. Infatti, si afferma che la previsione di cui all’art. 43 c.p. riguarda anche la violazione delle norme penali di parte speciale, che si realizza con la commissione del delitto doloso. Ne deriva che anche la cessione mediata di sostanze stupefacenti è idonea a configurare l’inosservanza di legge, individuando l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 586 c.p. Infatti, i sostenitori di questa tesi ritengono che le norme penali non esplichino solo una funzione repressiva, ma anche preventiva, imponendo alla persona di non porsi in contrasto con il precetto ivi contenuto.

Tuttavia, anche questa soluzione è criticata, poiché giunge a conseguenze analoghe a quella che opina per la responsabilità oggettiva, ponendo una distinzione che si limita al dato terminologico. Questo perché la responsabilità individuata dai sostenitori della seconda tesi comporta un’ipotesi di colpa presunta, derivante dalla commissione di un reato doloso a monte. Di conseguenza, la semplice realizzazione di quest’ultimo è sufficiente ad integrare l’addebito per la morte quale conseguenza di altro delitto, a prescindere da un’ulteriore indagine sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento non voluto. Nella sostanza, si giungerebbe ad un risultato analogo a quello paventato dalla prima tesi, poiché sarebbe sufficiente la dimostrazione del nesso causale per ritenersi provata la colpa derivante dalla causazione dell’evento voluto.

Riconosciuta la necessità di un’effettiva indagine della colpa, un’altra parte della giurisprudenza e della dottrina valorizza il concetto di prevedibilità in astratto. Questo terzo orientamento non ricava la colpa dal disvalore della condotta a monte, ma valuta la sussistenza di una delle componenti dell’addebito colposo, ossia la prevedibilità dell’evento.

Tuttavia, anche questa impostazione pecca nel momento in cui ricorre ad un automatismo nell’individuazione di tale responsabilità. Infatti, si configura una prevedibilità in re ipsa, che prescinde dall’analisi delle circostanze in concreto, limitandosi anche in questo caso ad una presunzione di colpa.

Ciò deriverebbe dalla circostanza per cui colui che cede sostanze stupefacenti deve prevedere l’evento morte, trattandosi di una conseguenza non imprevedibile. Questo perché il traffico di sostanze psicotrope contiene in sé un’intrinseca pericolosità, tale da giustificare anche la colpa dell’evento ulteriore e non voluto dall’agente. Interpretazione che comporterebbe il rischio di addossare una responsabilità per un evento inevitabile da parte dell’homo eiusdem professionis et condicionis.

Infatti, tale soluzione si limita ad apparire conforme ai principi di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale, ma ad un’analisi più attenta disvela la sua natura oggettiva. Come le precedenti, prescinde da una valutazione concreta dell’elemento oggettivo, ricorrendo ad una generalizzazione, fondata sulla pericolosità della condotta a monte.

Peraltro, anche un quarto orientamento proposto dalla dottrina non è condiviso dalla sentenza in commento, poiché fondato sulla tesi della responsabilità da rischio totalmente illecito. Soluzione che ravvisa una responsabilità oggettiva in capo a colui che deve rispondere ex art. 586 c.p., poiché non sarebbe configurabile una diversa forma di responsabilità. Infatti, questo indirizzo dottrinale esclude la colpa, che si presenterebbe soltanto quando il soggetto violi una regola cautelare nell’ambito di un’attività lecita. Viceversa, quando lo stesso si pone già in un contesto illecito, non potrà invocare l’addebito colposo, poiché non esiste alcuna regola cautelare da non osservare, essendo già illecita la condotta a monte.

Pertanto, anche in questo caso si ravviserebbe una responsabilità oggettiva, poiché il reato doloso presupposto conterrebbe il rischio dell’evento non voluto. Quest’ultimo si ricollegherebbe al primo, in quanto prevedibile ed evitabile.

Infine, l’ultimo orientamento esaminato dai giudici propende per la colpa in concreto, richiedendo un’indagine sull’effettiva prevedibilità ed evitabilità dell’evento letale da parte del soggetto postosi in re illicita. In tal modo, non ci si limita ad un generico riferimento ad una colpa prevedibile in astratto e ricavabile dall’esame del nesso causale tra la condotta e l’evento. Piuttosto, l’interprete dovrebbe valutare se la morte o le lesioni non volute fossero una conseguenza prevedibile dall’agente, secondo le circostanze conosciute o conoscibili nel momento in cui si è verificata.

Quest’ultima soluzione risulta preferibile se considerata alla luce dei principi costituzionali in materia di responsabilità penale. Infatti, le impostazioni precedenti peccavano nel momento in cui non consideravano l’importanza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento, così contrastando con il principio di colpevolezza.

Sul punto, occorre rammentare le pronunce della Corte Costituzionale nn. 364 e 1085 del 1988, che hanno sottolineato l’importanza di tale principio nell’individuazione di una responsabilità penale, ricavabile dal testo dell’art. 27 Cost. Invero, un giudizio che prescinda dall’esame della colpevolezza dell’autore implicherebbe un addebito oggettivo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena. L’imputato subirebbe una condanna anche a fronte di una conseguenza imprevedibile o inevitabile, per la semplice circostanza di trovarsi in una pregressa situazione di illiceità. Tuttavia, una simile condanna sarebbe percepita come ingiusta, frustrando le esigenze sottese all’irrogazione della pena. In particolare, si riconosce l’insensatezza di una misura volta a rieducare un soggetto che non necessita di essere rieducato, avendo agito in assenza di dolo o di colpa. Pertanto, l’art. 27 Cost. subirebbe una lesione qualora si adottasse una soluzione fondata su forme di responsabilità oggettiva, ovvero costruite sulla regola qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu.

Ne consegue che l’unica interpretazione condivisibile è quella della colpa in concreto, poiché è la sola ad essere rispettosa dei parametri costituzionali contenuti all’interno dell’art. 27 Cost. Infatti, il sistema penale vigente ripudia gli automatismi sanzionatori, fra i quali possono annoverarsi le forme di responsabilità in re ipsa. In assenza della soluzione ivi prospettata si profilerebbe, allora, il rischio di un’illegittimità costituzionale dell’art. 586 c.p., per contrasto con i principi di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale.

Peraltro, non è necessario distinguere tra una colpa che deriva dalla precedente situazione illecita e la colpa che può manifestarsi in circostanze normali. Una simile distinzione sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale, che impone di trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo diverso situazioni diverse. Questo perché la colpa non cambia a seconda delle circostanze pregresse, essendo sufficiente la prevedibilità ed evitabilità da parte di un soggetto diligente. Concetto che non si traduce nella figura del delinquente modello, bensì in quella del generico agente modello, che nella stessa situazione avrebbe potuto percepire la pericolosità della condotta.

Tali conclusioni sono state, poi, trasposte dalle Sezioni Unite nel caso dello spacciatore, ravvisando la possibilità di riscontrare una sua responsabilità ex art. 586 c.p., al ricorrere di alcuni elementi. Affinché ciò accada sarà necessaria la sussistenza di un nesso di causalità tra la cessione della sostanza e l’evento morte o lesione, nonché la rimproverabilità a titolo di colpa in concreto dell’evento non voluto. Condizione che si realizza qualora vi sia stata la violazione di una regola cautelare diversa da quella che vieta la cessione di sostanze stupefacenti, bensì diretta a prevenire la lesione della vita o dell’integrità fisica. Tuttavia, trattandosi di un’indagine da svolgersi in concreto, occorrerà la prova che tale lesione era prevedibile ed evitabile, così da non incorrere in un’ipotesi di responsabilità oggettiva mascherata.

Pertanto, i giudici di legittimità osservano che lo spacciatore potrà andare esente da responsabilità per le conseguenze non volute “quando una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto non faccia prevedere l’evento morte o lesioni”. Per converso, risponderà a titolo di colpa quando tale evento era prevedibile ovvero non sia stato previsto per colpa o per errore derivante da colpa. Responsabilità che potrà configurarsi anche in occasione di una cessione mediata dello stupefacente, qualora si dimostri in concreto che lo spacciatore avrebbe dovuto prevedere la pericolosità della propria condotta e la possibilità che si verificasse l’evento.

In ragione di ciò, le Sezioni Unite hanno annullato con rinvio la sentenza impugnata, nella parte dedicata agli artt. 83 e 586 c.p., per mancanza di motivazione sull’esistenza della colpa in concreto. Infatti, i giudici d’appello si erano limitati ad enunciare la sussistenza di un nesso causale tra condotta ed evento e la prevedibilità in astratto di quest’ultimo, ma senza approfondire l’indagine delle circostanze concrete della vicenda.

La bontà di tale soluzione è dimostrata dall’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in ordine al delitto di cui all’art. 586 c.p., che ha portato ad un’applicazione ripetuta del principio in questione. A conferma di ciò, si pensi alla valorizzazione che il principio di colpevolezza ha ricevuto negli ultimi anni, dove si possono segnalare diverse decisioni della Corte di Cassazione, che hanno ribadito la necessità di superare le forme di responsabilità oggettiva. Mediante un’interpretazione conforme alla Costituzione si giunge a modellare le varie forme di responsabilità oggettiva in termini di responsabilità a titolo di colpa (Cass. pen., sez. I, 6 marzo 2020, n. 9049). Interpretazione che non si è limitata alla sola fattispecie di cui all’art. 586 c.p., ma che è stata proposta anche con riferimento ad altre ipotesi controverse come l’omicidio preterintenzionale di cui all’art. 584 c.p. e le figure di reato aggravato dall’evento.

Pertanto, anche dopo una decina di anni, l’orientamento avallato dalle Sezioni Unite è ancora valido e confermato dalla giurisprudenza con sentenze di analogo tenore. Anche con pronunce del 2019 si è riconfermata la necessità di riscontrare la colpa in concreto dello spacciatore che abbia ceduto sostanza stupefacente, dalla quale sia conseguita la morte dell’assuntore (Cass. pen., sez. VI, 30 ottobre 2019, n. 44360; Cass. pen., sez. IV, 30 ottobre 2019, n. 44165).

La soluzione fornita nel 2009 rappresenta un’ulteriore conferma della volontà del sistema penale nazionale di ricostruire la responsabilità dell’imputato in termini di colpa o di dolo. Le numerose fattispecie che in passato erano etichettate come oggettive sono state ripensate in ragione dei principi contenuti nell’art. 27 Cost. In tal modo, da un lato, si accentuano le tutele costituzionali riconosciute alla persona e, dall’altro, si ripudiano gli automatismi e le presunzioni di colpevolezza, estranei ad una concezione più garantista del diritto penale.





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