LE MASSIME
“La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di <<comportamento abituale>> per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza <<non occasionale>>”;
“L’applicazione della predetta causa di non punibilità non può tener conto della capacità economica del soggetto danneggiato, ossia dell’Erario, atteso che la tutela penale prevista dal legislatore non ha come oggetto il patrimonio dello Stato, ma l’interesse pubblico – di rango costituzionale […] (artt. 1, 4, 35 e 38 Cost.) – all’osservanza dell’obbligo del datore di lavoro di versare i contributi previdenziali ed assistenziali”.
IL CASO
La pronuncia in esame trae origine dalla sentenza con la quale la Corte d’appello di Milano, in data 16.05.2019, confermava parzialmente la sentenza di condanna nei confronti dell’imputato, dichiarandolo responsabile del delitto di cui all’art. 2, L. 638 del 1983, con riferimento agli omessi versamenti dell’anno 2011. Il giudice dell’appello assolveva altresì l’imputato, relativamente alla mensilità di dicembre 2011 e per le annualità 2010 e 2012, per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato.
LA QUESTIONE
Il ricorso si articola lungo tre motivi. Con il primo di essi, il difensore censura la violazione di legge, in relazione agli artt. 179 c.p.p. e 24, 101, 111 Cost. La sentenza sarebbe stata resa all’esito di un’udienza della cui data il difensore di fiducia non aveva ricevuto comunicazione: ciò avrebbe compresso il diritto di difesa dell’imputato.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli art. 179, 552, co.1, lett. c), c.p.p. e 24 Cost.: la contestazione del fatto non sarebbe avvenuta in forma chiara e precisa, posto che la sentenza d’appello ha poi rimodulato il periodo temporale rilevante ai fini dell’integrazione del reato.
Con il terzo, e principale, motivo di ricorso, il difensore deduce la violazione degli articoli 131 bis c.p. e 2, comma 1, legge n. 638 del 1983, censurando altresì la contraddittorietà dell’iter motivazionale sviluppato nel provvedimento impugnato. Egli si duole, in particolare, della mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, affermando la bontà dell’opzione ricostruttiva del delitto in termini di reato unitario a consumazione prolungata e, dunque, non abituale. Inoltre, afferma che l’offesa avrebbe carattere tenue, posto che l’importo, pari a 3.158 euro, eccedente la soglia di punibilità, non rappresenterebbe un danno di rilevante entità nei confronti dell’Erario.
LA SOLUZIONE
La sentenza segnalata, nell’affermare l’inammissibilità del ricorso per genericità e manifesta infondatezza, contiene alcune affermazioni di sicuro interesse, le quali offrono spunti di riflessione circa temi quali la natura giuridica del delitto di omesso versamento di ritenute previdenziali, l’interesse tutelato da tale fattispecie incriminatrice e la compatibilità fra la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. e il reato continuato.
I primi due motivi di ricorso vengono ritenuti generici, poiché meramente riproduttivi di identiche doglianze svolte in sede di appello, e manifestamente infondati. Quanto al primo, la violazione delle prerogative difensive è da escludersi, poiché il rinvio era stato comunicato oralmente al sostituto processuale nominato ex art. 97, co. 4, c.p.p., il quale esercita tutti i diritti e le facoltà difensive: pertanto, la Corte esclude un vulnus al diritto di difesa costituzionalmente tutelato.
Il secondo motivo è ritenuto parimenti infondato, poiché la sentenza censurata ha fatto corretta applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite del 2018 “Del Fabbro”. Queste hanno affermato che l'importo complessivo superiore a 10.000 euro annui, rilevante ai fini del raggiungimento della soglia di punibilità, va individuato con riferimento non già alle mensilità di pagamento delle retribuzioni, bensì alle mensilità di scadenza dei versamenti contributivi. Correttamente, dunque, la sentenza impugnata ha riqualificato il fatto, modificando il periodo nel quale è intervenuta la condotta penalmente rilevante: ciò, peraltro, non avrebbe determinato la violazione lamentata, essendo pacifico che l’erronea indicazione del tempus commissi delicti non costituisce motivo di nullità del decreto di citazione a giudizio, risolvendosi in una mera irregolarità, la quale non preclude all’imputato di difendersi in modo compiuto.
Analoga valutazione viene svolta in riferimento al terzo motivo di ricorso. La Corte ritiene immune da vizi il ragionamento, compiuto dalla Corte d’appello, secondo cui il reato contestato, pure se unitario, avrebbe carattere abituale, collocandosi, più precisamente, nel genus dei reati a condotta frazionata: dunque esso postulerebbe il compimento di quelle condotte “plurime, abituali e reiterate”, considerate dal legislatore come ostative all’operatività della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. In parte qua, la sentenza in commento si colloca nel solco del filone interpretativo secondo cui la riforma operata con il D. lgs. n. 8 del 2016 avrebbe mutato la struttura della figura delittuosa contemplata dall’art. 2, L. 638 del 1983. Come noto, il legislatore del 2016 ha operato una parziale depenalizzazione, individuando, quale spartiacque fra l’illecito penale e quello amministrativo, una soglia di punibilità, pari a 10.000 euro, relativa all’ammontare annuale dei versamenti omessi. In conseguenza di ciò, la giurisprudenza prevalente ritiene che l’omissione non integri più un reato istantaneo, che si perfeziona in conseguenza di ogni mancato versamento mensile; piuttosto, si è al cospetto di un reato unitario, a consumazione prolungata: le eventuali successive omissioni, così, non integrano distinti reati, potenzialmente avvinti dal vincolo della continuazione, bensì conducono ad uno stadio superiore l’offesa integrata con la prima condotta omissiva. Tuttavia, nonostante la ricostruzione in chiave unitaria della fattispecie delittuosa in esame, la Suprema Corte aderisce all’orientamento più rigoroso, affermando che le condotte omissive, intervenute nel corso di diversi mesi, avrebbero carattere plurimo, abituale e reiterato, precludendo l’operatività della menzionata causa di non punibilità.
Sebbene, come ricordato, sia venuta meno la possibilità di riconoscere una pluralità di reati (e, dunque, un reato continuato) in relazione alle diverse mensilità di ciascun anno, la Suprema Corte ritiene di fornire altresì una considerazione di carattere generale, dando continuità all’orientamento prevalente, secondo cui la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. non può essere dichiarata in presenza di diversi reati, avvinti dal vincolo della continuazione: anche il reato continuato, ad avviso dei giudici di legittimità, costituirebbe un’ipotesi di “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una “devianza non occasionale”. Va segnalato, sul punto, che tali conclusioni, pur se largamente condivise in giurisprudenza, non collimano con quanto affermato da alcune recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la non punibilità potrebbe essere riconosciuta quantomeno nei casi in cui i diversi reati, legati dal vincolo della continuazione, riguardino azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e nei confronti della medesima vittima: secondo questa diversa prospettazione, in tali limitate ipotesi emergerebbe una circoscritta deliberazione criminosa, che costituirebbe un elemento incompatibile con la condizione negativa della abitualità della condotta presa in considerazione, quale fattore di esclusione della applicabilità della norma, dall’art. 131 bis c.p.
Da ultimo, viene ritenuta priva di pregio la doglianza difensiva, secondo la quale la valutazione dell’entità dell’offesa, rilevante ex art. 131 bis c.p., dovrebbe essere operata in relazione alla capacità economica dell’Erario, soggetto danneggiato dal reato. Secondo la Corte, è del tutto indifferente che la somma oggetto dell’inadempimento non sia idonea a influenzare la capacità economica dell’Erario, posto che la ratio dell’incriminazione della condotta non risiede nella tutela del patrimonio dello Stato. Il bene giuridico tutelato mediante la fattispecie di cui all’art. 2, L. 638 del 1983, piuttosto, è costituito dall’interesse pubblico all’osservanza, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di versare i contributi previdenziali e assistenziali, destinati a finanziare non solo le prestazioni erogate a favore dei lavoratori, ma la generalità delle prestazioni erogate dal sistema: interesse che, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, è dotato di rango costituzionale, rinvenendo il proprio fondamento negli artt. 1, 4, 35 e 38 Cost.
Per le ragioni esposte, la Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento della somma di 2.000 euro in favore dalla Cassa delle ammende.
Segnalazione a cura di Fabrizio Ruggieri.
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