Il D.lgs. n. 75 del 14 luglio 2020, pubblicato in data 15 luglio 2020 sulla Gazzetta Ufficiale, serie generale n.177: le novità in materia di reati contro la P.A., reati tributari e responsabilità degli enti.
a cura di Angelo Salerno
Il legislatore è tornato a intervenire in materia penale, con il Decreto Legislativo 14 luglio 2020, “Attuazione della direttiva (UE) 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”, c.d. Direttiva PIF (protezione interessi finanziari).
Il Decreto è stato emanato in attuazione della delega conferita al Governo con legge 4 ottobre 2019, n. 117, che all’art. 3 ha previsto i principi e i criteri direttivi per l’attuazione della direttiva (UE) 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale.
Il termine di attuazione della delega è stato prorogato per tre mesi durante la Fase 1 della gestione della pandemia da COVID-19, con il decreto legge 17 marzo 2020, n. 18.
Il decreto prevede principalmente modifiche che interessano il Codice penale e la normativa in materia di responsabilità degli enti dipendente da reato, di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001.
LE MODIFICHE AL CODICE PENALE
Con riferimento alle modifiche codicistiche, l’art. 1 del D.Lgs. 75/2020 interviene in materia di reati contro la pubblica amministrazione, integrando la disciplina dei delitti di cui agli artt. 316, 316 ter, 319 quater, ed estendendone la portata applicativa attraverso una modifica dell’art. 322 bis c.p., nonché dell’art. 640 c.p.
In particolare, con riferimento al delitto di Peculato mediante profitto dell'errore altrui, di cui all’art. 316 c.p., la novella prevede l’inserimento di un ultimo comma, in forza del quale «La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.»
In tali ipotesi dunque la pena base, della reclusione da sei mesi a tre anni è aumentata se il fatto è commesso ai danni degli interessi finanziari dell’unione, purché il profitto conseguito superi il valore di 100.000 euro.
Nel contempo, con riferimento al delitto di Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, di cui al successivo art. 316 ter c.p., viene introdotto un ulteriore periodo alla fine del primo comma, disponendo che «La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni se il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.».
A fronte dunque dei medesimi presupposti che determinano un aggravamento di pena in relazione alla fattispecie di cui all’art. 316 c.p., il legislatore della novella ha aumentato la pena base, della reclusione “da sei mesi a tre anni”, in quella aggravata, da sei mesi a quattro anni.
La riforma non appare tuttavia coordinata con l’inciso del primo comma dell’art. 316 ter c.p., ai sensi del quale “La pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri”.
Si pone infatti il problema di stabilire se, a fronte di un fatto commesso da uno di tali soggetti pubblici qualificati e, nel contempo, ai danni degli interessi finanziari dell’Unione Europea, debba trovare applicazione l’una ovvero l’altra neo-introdotta aggravante, che comporterebbe un limite edittale minimo più basso (sei mesi in luogo di un anno).
Si è al riguardo osservato, nei primissimi commenti, che se in relazione al massimo edittale entrambe le aggravanti sono da qualificarsi ad effetto comune (in quanto comportano un aumento contenuto nel limite di un terzo della pena base), quella legata alla qualità soggettiva del reo rispetto alla neo-introdotta aggravante, assume carattere di circostanza ad effetto speciale in relazione al minimo edittale, raddoppiandolo.
A fronte dunque di coloro che hanno sostenuto, in forza del principio del favor rei, di applicare – in caso di concorso tra le circostanze – solo quella introdotta con il D.Lgs. 75/2020, è stato invece ritenuto operante, in siffatta ipotesi, il disposto dell’art. 63 c.p., che disciplina proprio il concorso di circostanze aggravanti, disponendo che “Quando per una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l'aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo”.
In tal caso, tuttavia, non sarebbe tuttavia possibile procedere ad un secondo aumento, dal momento che il legislatore non individua una frazione di pena ma ridetermina la cornice edittale per entrambe le aggravanti.
È stato richiamato dunque il disposto dell’art. 68 c.p., “Limiti al concorso di circostanze”, che al comma secondo prevede che “Se le circostanze aggravanti o attenuanti importano lo stesso aumento o la stessa diminuzione di pena, si applica un solo aumento o una sola diminuzione di pena”.
Nel caso di specie, dunque, guardando alla pena massima edittale aggravata, pari a quattro anni in entrambi i casi, potrebbe risolversi il problema applicando solo una delle circostanze.
A tale soluzione si è però obiettato che la pena non coincide con riferimento al minimo edittale, impedendo l’applicazione dell’art. 68, comma secondo, c.p.
È stata pertanto invocata l’applicazione dell’art. 63 c.p. summenzionato, nella parte in cui prevede, al comma quarto, che “Se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla”. Il riferimento è alle circostanze aggravanti ad effetto speciale, sopra richiamate.
Secondo tale impostazione, dunque, potrebbe applicarsi l’aggravante soggettiva, perché più grave in relazione al minimo edittale (un anno), e quindi eventualmente aumentare ulteriormente la pena.
Anche in questo caso, tuttavia, si è osservato che la nuova aggravante non comporta un aumento di pena superiore ad un terzo e pertanto non può ritenersi una circostanza ad effetto speciale.
Si tratta infatti di una circostanza c.d. indipendente ad effetto comune, in precedenza disciplinata dall’art. 63 c.p. e oggi espunta dalla disposizione ma ancora disciplinata nell’ambito del concorso eterogeneo di circostanze, di cui all’art. 69 c.p.
Emerge dunque il difetto di coordinamento della nuova disciplina e la lacuna che si è venuta a creare con la riforma attuata con legge n. 400 del 1984.
Tanto evidenziato in relazione all’art. 316 ter c.p., deve darsi atto delle analoghe modifiche apportata alla fattispecie penale di cui all’articolo 319 quater, che punisce il delitto di “Induzione indebita a dare o promettere utilità” e, al secondo comma, prevede oggi che la pena prevista per il privato, pari a tre anni nell’ipotesi base, sia aggravata “fino a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000”.
Le modifiche intervenute sul piano sanzionatorio si accompagnano alle anzidette estensioni all’ambito applicativo dei reati contro la Pubblica Amministrazione, dal momento che il testo dell’art. 322 bis c.p. è stato integrato, al comma primo, con il nuovo n. 5 quinquies, con conseguente applicazione delle norme che puniscono i delitti di peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione, anche “alle persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di Stati non appartenenti all’Unione europea, quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione”.
Le medesime finalità sono perseguite infine attraverso la modifica dell’art. 640 c.p., che punisce il delitto di truffa, che al comma secondo prevede oggi un aggravamento di pena, tra le altre ipotesi, non solo “se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico”, ma anche “dell’Unione europea”.
Si apprezza nella riforma la proprietà lessicale nel fare riferimento non più alla Comunità europea o agli interessi comunitari ma all’Unione europea, dal momento che quest’ultima ha sostituito la Comunità europea fin dal Trattato di Lisbona, nel 2009.
Ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. 75/2020 inoltre è previsto che “In ogni norma penale vigente recante la disciplina dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea il riferimento alle parole «Comunità europee» dovrà intendersi come riferimento alle parole «Unione europea»”.
MODIFICHE AI REATI TRIBUTARI
Così esaurita l’analisi delle norme di portata generale e delle modifiche al Codice penale, può darsi atto delle novità introdotte dalla novella negli specifici settori dei reati tributari, del contrabbando e della responsabilità degli enti, accomunate dalla finalità di tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Per cogliere le modifiche apportate dall’art. 2 del Decreto, occorre richiamare la disciplina dell’art. 6 del D.Lgs. n. 74 del 2000, in materia di reati tributari, ai sensi del quale “I delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo”. Si tratta rispettivamente delle fattispecie penali di Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e Dichiarazione infedele.
La novella ha introdotto un nuovo comma 1 bis all’art. 6 cit., ai sensi del quale “Salvo che il fatto integri il reato previsto dall’articolo 8 [e cioè di Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti], la disposizione di cui al comma 1 non si applica quando gli atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro”.
L’esclusione della punibilità a titolo di tentativo, prevista in via generale dal comma 1 dell’art. 6, viene dunque oggi meno quando la condotta tentata sia diretta ad evadere l’IVA per un valore complessivo di almeno 10.000.000 di euro, anche se gli atti idonei e diretti in modo non equivoco a realizzare il reato siano stati commessi in altri Stati membri dell’Unione.
La norma è di notevole interesse sotto un duplice profilo.
Il primo attiene, anche in questo caso, alla imprecisione tecnica (o intenzionale giustizialismo?) con cui si fa riferimento ad “atti diretti a commettere i delitti”, lasciando esclusa la “univocità”. È stato infatti osservato che o si tratta di un’imprecisione tecnica, avendo il legislatore dimenticato il secondo pilastro su cui si fonda l’istituto del tentativo, quale l’univocità degli atti; ovvero la norma intende non solo consentire la punibilità a titolo di tentativo per le fattispecie sopra indicate ma finanche anticipare la punizione del fatto tentato alle condotte che, pur non idonee, siano dirette a commettere i predetti reati.
Palese il vulnus di offensività che deriverebbe, specie se si considera che i delitti di attentato, nella più recente giurisprudenza, sono stati interpretati associando al requisito della “direzione a” quello della “idoneità”, sì da garantire l’offensività della condotta quantomeno in termini di pericolo.
Resta da stabilire quale sia il motivo dell’omissione e quale delle due evenienze lasci più perplessi.
Il secondo profilo di interesse riguarda invece l’inciso “sono compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea”. Si apprezza infatti un timido embrione di un diritto penale europeo, di una territorialità estesa all’intera Unione europea, oltre i confini nazionali, fermo restando che il diritto penale è tra i settori più lenti nel processo europeo di integrazione e di unificazione.
A fronte della territorialità 2.0 ravvisata nella norma, si è tuttavia registrato, anche in questo caso, quale dubbio interpretativo, dal momento che l’utilizzo dell’espressione “anche” si presta ad una duplice lettura: occorre cioè che gli atti diretti (ma non univoci?) siano commessi non solo sul territorio nazionale ma “anche” sul territorio di altro Stato membro? O deve leggersi la norma nel senso di consentire la punizione in Italia di condotte commesse sul territorio europeo?
La prima lettura per vero non appare innovativa, dal momento che l’aver commesso anche solo una parte della condotta in Italia consente di punire la stessa secondo il diritto nazionale ai sensi dell’art. 6, comma secondo, c.p. (Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l'azione o l'omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione od omissione). Pare invece preferibile le innovativa territorialità europea che potrebbe rappresentare un primo passo verso un nuovo ambito operativo sovranazionale del diritto penale.
LE MODIFICHE ALLA RESPONSABILITA' DEGLI ENTI
Le novità in materia di reati tributari proseguono in relazione alla disciplina della responsabilità degli enti dipendente da reato, a fronte delle modifiche apportate dalla novella del 2020 al D.Lgs. n. 231 del 2000.
In particolare, all’art. 24 del Decreto 231, che apre la Sezione III, in cui sono individuati tassativamente i reati presupposto, è stata modificata la rubrica, oggi così indicata: “Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato, di un ente pubblico o dell’Unione europea o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico e frode nelle pubbliche forniture”
La modifica della rubrica è legata all’introduzione tra i reati presupposto della fattispecie di cui all’art. 356 c.p., di Frode nelle pubbliche forniture, nonché al riferimento all’Unione europea quale soggetto passivo dei delitti presupposto indicati nella norma, accanto allo Stato o agli enti pubblici nazionali.
Viene inoltre inserito un comma 2 bis, ai sensi del quale “Si applicano all’ente le sanzioni previste ai commi precedenti in relazione alla commissione del delitto di cui all’articolo 2 della legge 23 dicembre 1986, n. 898”.
Il riferimento è alla legge recante “Misure urgenti in materia di controlli degli aiuti comunitari alla produzione dell'olio di oliva. Sanzioni amministrative e penali in materia di aiuti comunitari al settore agricolo”, di conversione del Decreto legge 27 ottobre 1986, n. 701, che all’art. 2 punisce, “Ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall'articolo 640-bis del codice penale, chiunque, mediante l'esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo agricolo di garanzia e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale”.
Oltre a inserire la fattispecie in esame tra i reati presupposto della responsabilità degli enti, con effetto irretroattivo, il D.Lgs. n. 75/2020, all’art. 6 ha previsto un’aggravante che aumenta la pena base (da sei mesi a tre anni di reclusione) a quella “da sei mesi a quattro anni quando il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000”.
Ulteriori modifiche al Decreto n. 231/2001 riguardano l’art. 25, modificato anche in questo caso mediante sostituzione della rubrica con quella “Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e abuso d’ufficio”, e attraverso l’inserimento, al comma primo, del seguente periodo “La medesima sanzione si applica, quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea, in relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 316 e 323 del codice penale”.
Per effetto della novella, dunque ai reati di corruzione e di traffico di influenze illecite, già previsti quali reati presupposto della responsabilità dell’ente, si affiancano le fattispecie di peculato, peculato mediante profitto dell’errore altrui e abuso d’ufficio, quando però siano stati commessi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea.
Più rilevanti le modifiche all’art. 25 quinquiesdecies, di recente aggiunto dall'art. 39 del decreto-legge n. 124 del 2019, attraverso l’inserimento di un nuovo comma 1 bis (richiamato ai successivi commi 2 e 3 con riferimento alle aggravanti e alle sanzioni interdittive), il quale prevede che “In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, se commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri e al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un importo complessivo non inferiore a dieci milioni di euro, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di dichiarazione infedele previsto dall’articolo 4, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote;
b) per il delitto di omessa dichiarazione previsto dall’articolo 5, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di indebita compensazione previsto dall’articolo 10 quater, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.”.
La norma, che prima facie è apparsa completare le inspiegabili lacune del Decreto fiscale di fine 2019 in relazione alla responsabilità degli enti per i più comuni e diffusi reati tributari, costituisce al contrario un’occasione persa per razionalizzare la disciplina in esame.
Le integrazioni, riferibili ai soli delitti di cui agli artt. 4, 5 e 10 quater del D.Lgs. n. 74/2000 (non già alle fattispecie di omesso versamento ex artt. 10 bis e 10 ter!), sono finanche prive di portata generale, dal momento che occorre che il reato sia stato commesso “nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri” e che l’importo IVA che si miri ad evadere superi i 10.000 di euro.
Un timido passo in avanti, che non colma però le lacune già segnalate in materia di responsabilità degli enti per reati tributari.
LA DISCIPLINA DEI REATI DI CONTRABBANDO
L’ultima modifica apportata dal D.Lgs. 75/2020 al Decreto 231 consente di esaurire questa breve analisi della novella, dando atto delle norme dettate in materia di contrabbando.
Tra i reati presupposto della responsabilità dell’ente vengono infatti inseriti, al nuovo art. 25 sexdecies del D.Lgs. n. 231/2001, i reati di cui al D.P.R. n.43 del 1973, che detta appunto le norme penali in materia di contrabbando.
Anche in questo caso, come con riferimento ai sopra richiamati reati in materia agraria, l’inserimento delle predette fattispecie tra i reati presupposto della responsabilità degli enti si accompagna ad una modifica della disciplina penale.
L’art. 3 del D.Lgs. 75 del 2020 prevede infatti modifiche all’art. 295 del D.P.R. 43/1973, prevedendo che i delitti previsti dagli articoli precedenti del Decreto siano puniti più gravemente, con la reclusione da tre a cinque anni, anche nei casi di cui alla nuova lettera d bis), che prende in considerazione i casi in cui “l’ammontare dei diritti di confine dovuti è superiore a centomila euro”.
Viene inoltre coordinato il testo del terzo comma, prevedendo che “Per gli stessi delitti, alla multa è aggiunta la reclusione fino a tre anni quando l’ammontare dei diritti di confine dovuti è maggiore di cinquantamila euro e non superiore a centomila euro”. In questo modo viene limitata la portata applicativa di tale aggravante poiché oltre i 100.000 euro di diritti evasi opera il più severo trattamento sanzionatorio di cui al comma secondo, lettera d bis).
Ultima annotazione riguarda, sempre in tema di contrabbando, la modifica al D.Lgs. n. 8 del 2016.
L’art. 1 del citato decreto legislativo aveva determinato la depenalizzazione delle fattispecie in esame quando punite con la sola pena pecuniaria (art. 1: “Non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell'ammenda”).
È il caso della fattispecie di cui all’art. 291 bis del D.P.R. n. 43 del 1973, che puniva con la sola pena pecuniaria le condotte aventi ad oggetto quantitativi di tabacchi lavorati esteri inferiori ai 10 kg.
L’art. 1 del D.Lgs. n. 8 del 2016 prevede delle esclusioni alla depenalizzazione generalizzata delle fattispecie punite con la sola pena pecuniaria, mediante richiamo, al comma quarto della disciplina in materia di immigrazione (D.Lgs. n. 286 del 1998), cui oggi si aggiungono, per effetto della novella del 2020, i “reati di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, quando l’ammontare dei diritti di confine dovuti è superiore a euro diecimila”.
In disparte, dunque, il quantitativo di merci o comunque la punizione con la sola pena pecuniaria, se i diritti evasi sono superiori a 10.000 euro, le fattispecie depenalizzate nel 2006 tornano ad assumere rilevanza penale.
Si tratta chiaramente di una norma irretroattiva che non incide affatto su tutte le condotte commesse antecedentemente, finanche prima della depenalizzazione, posto che non è ammessa la reviviscenza di una fattispecie penale in forza dell’art. 25, comma secondo, Cost. (se non nei casi residuali in cui la norma abrogatrice sia stata dichiarata incostituzionale e il fatto sia stato commesso prima dell’abolitio criminis).
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