MASSIMA
“Sussiste il nesso di causalità tra la condotta omissiva tenuta dal medico e il decesso del paziente allorquando risulti accertato che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore, rallentando significativamente il decorso della malattia, o con minore intensità lesiva.”
IL CASO
Con sentenza del 23 maggio 2018 il Tribunale dichiarava l’imputato nella qualità di medico del lavoro, responsabile del reato di cui all'art. 590 sexies cod. pen. e lo condannava alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno di reclusione.
In particolare all’imputato era ascritto di aver cagionato, per colpa consistita in negligenza, imperizia ed imprudenza ed inosservanza delle regole che presiedono l'arte medica, la morte della vittima, nel luglio del 2014: - per avere omesso, nel redigere i certificati di idoneità lavorativa di fine 2013, di effettuare un'adeguata valutazione dei risultati degli esami ematochimici; - per aver omesso qualunque informazione e comunicazione dell'esito degli esami al diretto interessato e al medico curante, determinando così un ritardo diagnostico della patologia.
La Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, concesse le attenuanti generiche, ha ridotto la pena a mesi otto di reclusione.
L’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione.
LA QUESTIONE
Per comprendere la questione posta all’attenzione della Suprema Corte, occorre procedere all'esatta delimitazione del ruolo assegnato al medico competente nell'ambito dell'organizzazione aziendale.
Tale figura professionale ha fatto la sua comparsa nel nostro ordinamento con l'art. 33 del d.P.R. n. 303 del 1956. Il d.lgs. n. 81/2008 ha stabilito una più organica disciplina normativa dei garanti della sicurezza sul lavoro, ivi compreso il medico competente, quale collaboratore che coadiuva l'imprenditore nell'esercizio dei suoi obblighi preventivi, in quanto portatore di qualificate cognizioni tecniche e, dunque, nell'ambito di un rapporto di natura privati.
Tra gli obblighi ex lege incombenti sul medico competente risulta di fondamentale rilievo la programmazione e lo svolgimento della sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari, calibrati sui rischi specifici, tenendo conto degli indirizzi scientifici più avanzati e dello stato generale di salute del lavoratore. In particolare la ratio sottesa all'art. 41 d.lgs. n. 81/2008 è quella di prevenire qualunque forma morbosa provocata dal lavoro ed è mirata alla formulazione di un giudizio di idoneità alle mansioni specifiche che tenga conto di tutte le caratteristiche psico - fisiche del lavoratore confrontate con il peculiare contesto ambientale.
In tale ottica la predetta disposizione impone, tra l'altro una serie di visite preventive, periodiche e su richiesta del lavoratore all'esito delle quali il medico competente esprime un giudizio avverso il quale è ammesso ricorso, entro trenta giorni, all'organo di vigilanza territorialmente competente.
Ciò posto, il ragionamento sviluppato dalla Corte distrettuale e posto a fondamento della statuizione di condanna risulta affetto sia dal vizio di violazione di legge che dalle dedotte incongruenze motivazionali.
Invero, non risulta adeguatamente sviluppato il tema volto a verificare se, nello svolgimento delle visite periodiche eseguite dall’imputato. negli anni 2012 e 2013 nei confronti della vittima, sulla base delle effettive conoscenze, sia cliniche che di lavoro, o, comunque, di quelle conoscibili, e nella correlata formulazione dei relativi giudizi di idoneità alle mansioni specifiche, sia ravvisabile, a suo carico, la sussistenza di una condotta colposa tenuto conto dei doveri cautelari attribuitigli dall'ordinamento giuridico in ragione della sua specifica posizione di garanzia rivestita.
Va in ogni caso considerato che il presupposto della rimproverabilità soggettiva nei confronti dell'imputato implica la prevedibilità dell'evento che va compiuta ex ante, riportandosi al momento in cui la condotta è stata posta in essere avendo riguardo anche alla potenziale idoneità della stessa a dar vita ad una situazione di danno e riferendosi alla concreta capacità del soggetto di uniformarsi alla regola cautelare, da commisurare al parametro del modello dell'homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze da parte dell'agente concreto.
Inoltre, a fronte di una condotta attiva indiziata di colpa che abbia cagionato un certo evento, occorre, poi, operare il giudizio controfattuale, ovvero chiedersi se, in caso di c.d. comportamento alternativo lecito, l'evento che ne è derivato si sarebbe verificato ugualmente e ne rappresenti la concretizzazione del rischio.
Si rammenta, inoltre, che nelle ipotesi di omicidio o di lesioni colpose in campo medico, il ragionamento contro - fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, deve essere svolto dal giudice tenendo conto della specifica attività che sia stata specificamente richiesta al sanitario (diagnostica, terapeutica, di vigilanza o di controllo) e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con altro grado di credibilità razionale. Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra la condotta omissiva tenuta dal medico e il decesso del paziente allorquando risulti accertato che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore, rallentando significativamente il decorso della malattia, o con minore intensità lesiva.
LA SOLUZIONE
La Suprema Corte, ritenendo il ricorso fondato, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello.
Segnalazione a cura di Mattia Di Florio
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